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La Sicilia riscopre le grandi cave di pomice: «Un museo per valorizzare il sito di Lipari»

di Nino Amadore

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(Lux - stock.adobe.com)

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Progetto di Museimpresa per salvare dall’abbandono il patrimonio industriale. Bongiorno: «Una iniziativa che può essere allargata anche ad altri siti siciliani»

12 giugno 2021
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4' di lettura

Le Eolie furono un affamato paradiso. Nulla a che vedere con quello che vediamo oggi: un ricco paradiso del turismo, impreziosito da produzioni agricole di qualità, collocato nel piano nobile dei siti Unesco, patrimonio mondiale dell’umanità. Un tempo ci fu, forse, una sola ricchezza, vanto e meraviglia: l’oro bianco della pomice.

Figlia del vulcano, la pomice è prezioso materiale per gli usi più disparati: dall’edilizia alla cosmetica. Nel 1960, ha raccontato il poeta messinese Bartolo Cattafi, nel versante settentrionale dell’isola di Lipari lavoravano almeno un migliaio di operai (i cavatori) per l’estrazione di almeno due milioni di quintali di pomice l’anno.

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 Gli ultimi addetti (31) dell’ultima cava di pomice delle Eolie, chiusa definitivamente nel 2007, sono stati assunti qualche settimana fa definitivamente dalla Resais, glorioso ente della Regione siciliana da anni diventato veicolo per dare un appiglio contrattuale decente a questo o quel lavoratore socialmente utile reduce di una delle tante crisi aziendali.

È un pezzo di patrimonio (umano, professionale) ed è un pezzo della nostra storia che finisce. E rischia di finire nel dimenticatoio la storia dei cavatori di pomice di Lipari così come un meccanismo di rimozione collettiva vuole eliminare dalla memoria quelle cave bianche che ancora oggi i turisti, dal mare, continuano a guardare con meraviglia e che ancora oggi restano meta di famiglie e frotte di turisti che vi arrivano per fare il bagno.

Ecco oggi di quel patrimonio umano e industriale non resta nulla se non l’amarezza di Enzo D’Ambra, ultimo proprietario della Pumex, azienda fondata nel 1958, prima della chiusura delle cave e del successivo fallimento dell’azienda. Era stato lo stesso D’Ambra a presentare un progetto integrato che prevedeva la riqualificazione dell’area di cava, la creazione di un polo formativo e di ricerca affidato alle università siciliane e un museo di impresa «ma non ho mai avuto risposte» dice oggi D’Ambra con amarezza.

«A oggi la zona è preda di vandali, coppiette in cerca di un posto tranquillo dove appartarsi, graffitari e purtroppo un piccolo losco giro di spaccio. La cava abbandonata a se stessa, senza più una copertura di terriccio e rocce dure è a forte rischio di frana che nel caso dovesse avvenire crollerebbe sulla strada sottostante bloccando buona parte della circolazione dell’isola, dicono i geologi. Il problema forse più pressante per la cittadinanza è che le strutture che dovrebbero essere ben chiuse dai sigilli del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto sono del tutto accessibili a chiunque senza un minimo sforzo e oltremodo pericolanti» ha raccontato sul sito narrarestoria.it lo scrittore Carlo Cavazzuti.

Ed è da qui, da questi disastrosi punti fermi, che si può partire per salvare il salvabile evitando lo smembramento totale della cava, dei laboratori, degli uffici, dei macchinari, di tutto ciò che è insomma il tessuto connettivo di questa azienda.

Il museo dell’industria e del lavoro nelle Eolie, proprio nelle cave di pomice, è adesso una proposta fatta da Antonio Calabrò, presidente di Museimpresa, ripresa da Enzo Cancellato, presidente di Federculture, da Franco Iseppi, presidente del Touring Club e da Gianni Puglisi, presidente onorario dell’Unesco Italia e che adesso viene rilanciata da Gregory Bongiorno, presidente di Sicindustria, l’associazione di Confindustria di 7 delle 9 province siciliane: «Un museo di impresa dedicato alla cava di pomice di Lipari è non solo opportuno ma importante per diversi motivi: uno è rappresentato dalla memoria della storia industriale della nostra isola per ciò che quell’insediamento produttivo ha rappresentato negli anni; un altro è quello del ritorno che questo può significare in termini culturale, turistici e quindi economici. Si può cominciare da Lipari per continuare con tante altre cave e aziende siciliane e costruire una rete di Musei di impresa nell’isola. È un progetto su cui lavorare: farò nei prossimi giorni la proposta all’assessore ai Beni culturali Alberto Samonà».

Una iniziativa che porterebbe anche un altro risultato: rendere plasticamente visibile una dimensione produttiva e non parassitaria della Sicilia. In barba ai luoghi comuni. Le risorse ci sono, serve la volontà.

Si potrebbero, per esempio, utilizzare le somme derivanti dai canoni concessori ed estrattivi versati dalle aziende del settore. Forse non un dovere ma sicuramente una necessità per sconfiggere l’assuefazione: «Il principale nemico della memoria è l’oblio, ma non è il più pericoloso. Il nemico più pericoloso della memoria è abituarsi a ereditare i beni dei nostri padri – aggiunge Bongiorno citando Papa Francesco –. Se c’è una cosa che temo più dell’oblio è proprio l’assuefazione. Assuefarci a ciò che abbiamo, alla bellezza che ci circonda, alle ricchezze che ci appartengono. È così che si scivola lentamente verso l’oblio. In un processo irreversibile fatto di piccole porzioni di abbandono quotidiano che a Lipari, sta inghiottendo la testimonianza di quella che fu la vocazione industriale dell’Isola. Un mondo, quello dell’impresa, che ha un cuore pulsante fatto di tutti gli uomini e le donne che da quella impresa sono passati, fatto di storie, di gioie e di dolori, di ansie e di delusioni, di segni tangibili e di atmosfere che possono rivivere in quello che può diventare un museo minerario diffuso».

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