di Silvia Paoli
Un ritratto di Nino Cerruti.
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«Lei troverà un po' snob le mie risposte, ma io credo che nel mondo di oggi un po' di snobberia sia una qualità apprezzabile». Iniziava così l'intervista che Nino Cerruti ci aveva concesso per il libro “Eleganza. La guida dello stile maschile” (ed Il Sole24Ore). Lo avevamo interpellato proprio per la competenza, la statura e l'ironia con cui poteva «maltrattare l'eleganza, ma trattare il concetto». Ovvero dire la sua opinione su che cosa esprima l'abbigliamento maschile oggi.
Che cosa è l’eleganza maschile per lei oggi? Chi è elegante e in che modo lo dimostra? «Eleganza è una parola che detesto perché mi sembra che sia usata da persone che si mettono addosso cose terribili e, siccome sono insolite, pensano di essere eleganti. Preferisco la parola stile. Lo stile è o non è. Lo stile è la sensibilità delle persone. Avere stile significa mischiare cultura e arte, vuol dire aver rispetto per dei valori estetici. Chi non ha stile dovrebbe avere il buon senso di ascoltare che cosa gli dicono di fare e non inventarsi cose strane. Oggi, passiamo dal conservatorismo più difensivo a delle tenute che sembrano barzellette».
Come è cambiata la sua idea di stile negli anni? «Ho iniziato a occuparmi dell’azienda all’inizio degli anni Cinquanta. Uno dei momenti cruciali è scattato con gli inizi degli anni Sessanta e ha coinciso con l’evoluzione del casual chic: uno stile che ha inaugurato l’adozione di forme più rilassate e che ha visto maggiore libertà individuale nel modo di interpretare l’abbigliamento maschile. Un processo giunto sino a oggi, quando si è sentita la necessità (in qualche caso male interpretata) di accentuare l’originalità dell’abbigliamento e di accogliere nella vita quotidiana lo sportswear».
Quali valori esprime oggi l’abito maschile, nella professione ma anche fuori. «Oggi l’abito maschile esprime atteggiamenti molto diversi fra loro: può essere un’espressione di persona raffinata o ricercata, ma può anche essere un fai come fanno gli altri che così puoi star tranquillo».
Negli anni Ottanta ha creato una linea sportswear e collaborato con atleti di fama mondiale: da che cosa nasceva quell’intuizione? «Quando avevo lanciato la mia linea di sport, soprattutto per sport individuali (quello delle squadre è arrivato in seguito), avevo cercato di creare qualcosa che non comunicasse solo un messaggio, ma di dare all’abbigliamento, soprattutto di sci e tennis, una certa estetica alle divise, pur con grande attenzione alle performance e allo stile. Ho sempre creduto che la dinamica fosse una componente indispensabile per l’uomo sportivo. Per l’uomo moderno lo sport è una parte insostituibile della vita quotidiana».
Il libro “Eleganza. La guida dello stile maschile” (ed Il Sole24Ore).
Ha vestito attori famosi in film leggendari: da Michael Douglas in Wall Street a Richard Gere in Pretty Woman. Chi il più interessante? «Jack Nicholson. È uno degli attori più eccezionali che il cinema americano abbia espresso. È una di quelle persone che non voleva la stranezza nell’abito per essere diverso, gli piacevano dettagli molto sottili, salvo quando servivano i colpi di teatro, come nell’interpretazione del diavolo nel film Le streghe di Eastwick. Per me una cosa importante è rendere interessante la normalità. La normalità è una cosa molto delicata, è un rifugio per molte persone, ma chi riesce a proporre un equilibrio diverso, una normalità che attira l’attenzione, che svela inventiva, sensibilità, ecco quella è la quadratura del cerchio».
Attori e red carpet. Lo smoking è ancora l’abito di premiazioni e festival. Perché? «Il vantaggio dello smoking è che non pone alcun problema e a quel punto lì è ovvio che viene fuori veramente la persona che lo indossa. Tanto è vero che le volte in cui qualcuno mette uno smoking che non è uno smoking ha sempre l’aria di un poveraccio».
Che cosa del mondo dello sport è, a ragione, entrato nel vestire quotidiano? «I blouson lunghi in materiali tecnici che sono capi che rendono bene anche nel contesto urbano. E il pullover. Flessibile, dona un senso di libertà educata. Se devo dirle il capo principe del passato, dico: la giacca. Il capo principe del presente: il golf. Che cosa dovrebbe rimanere fuori? Tutto ciò che non rispetta una ricerca estetica che nello sport in genere è la combinazione di movimento, forza e performance».
È vero che andava a sciare in pausa pranzo? Come era la sua tenuta da sci? «Sì, è vero. C’era molta più neve anche a bassa quota fino a qualche anno fa e quindi potevo sciare anche senza andare lontano. Ci andavo di rado tuttavia, anche perché mescolare insieme l’abbigliamento della vita d’ufficio e quello sportivo mi sembrava un po’ sacrilego. Le due tenute in qualche modo dovevano avere necessariamente qualcosa in comune, e il dialogo non era sempre facile. Mi portavo pantaloni da sci e scarponi in una sacca. Erano occasioni rare e c’erano poche persone. Almeno ho fatto poco danno».
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