di Dino Pesole
Per il Recovery regia a Palazzo Chigi e task force locali
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Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, che per l'Italia vale 221,5 miliardi se si sommano anche i 30 miliardi previsti dal fondo complementare per gli investimenti finanziato con l'ultimo scostamento di bilancio (237 miliardi nel totale compresi anche gli stanziamenti del fondo React EU), non sarà limitato al raggio di azione dell'attuale Governo. Secondo quanto prevedono le linee guida della Commissione europea, i piani nazionali saranno vincolanti da qui al 2026. Se ne desume che il cronoprogramma relativo ai progetti di investimento e alle riforme strutturali, che il Governo sta per definire dovrà essere rispettato anche dai governi che verranno. Per questo è necessaria fin d'ora la massima condivisione a livello politico e parlamentare, così da sottrarre i successivi passaggi attuativi del Programma alle variabili di tipo politico ed elettorale che potranno determinarsi, primo tra tutti l'appuntamento con le prossime elezioni politiche fissato al 2023, se la legislatura terminerà alla sua scadenza naturale.
Negli incontri a Palazzo Chigi con le forze politiche e le parti sociali, il presidente del Consiglio, Mario Draghi ha confermato che il Recovery Plan sarà inviato a Bruxelles entro la scadenza prevista, dunque probabilmente il 30 aprile, subito dopo l'illustrazione in Parlamento del 26 e 27 aprile. Accanto all'impatto stimato in termini di incremento del Pil dei singoli progetti, vi sarà anche una stima degli effetti sull'occupazione. Il contributo delle forze politiche sarà decisivo, non solo nella fase di approvazione in Parlamento delle riforme in cantiere (giustizia civile, concorrenza, pubblica amministrazione, fisco), ma anche nella successiva realizzazione e monitoraggio. Sul versante degli investimenti, di fondamentale importanza sarà il percorso di semplificazioni burocratiche e amministrative, al pari del pieno coinvolgimento delle amministrazioni centrali, regionali e anche comunali. Decisiva anche la concertazione con le parti sociali. Quel che si prospetta, almeno sulla carta, è dunque un'operazione “di sistema” che coinvolgerà gran parte dei soggetti istituzionali del paese.
Differentemente dal passato, quando alla Commissione europea era assegnato il compito principale di vigilare sui conti pubblici dei paesi membri, sia con le rituali “raccomandazioni” che con l'eventuale ricorso all'arma delle procedure di infrazione, nel caso del Next Generation EU il cambio di marcia è evidente. L'interlocuzione sulla messa a punto dei singoli Piani nazionali è in corso almeno dallo scorso ottobre. Nel caso del nostro Paese, si è dovuto tener conto del cambio di governo intervenuto a febbraio, e dunque non si vive a Bruxelles con particolare apprensione l'aspetto relativo al puntuale rispetto delle scadenze nella presentazione del piano. Quel che va considerato in via prioritaria è il contenuto, e poiché l'Italia è in Europa il principale beneficiario del Recovery Fund l'attenzione è rivolta soprattutto alla qualità degli interventi che saranno tra breve inseriti nel piano nazionale. Per ora Draghi mantiene un certo riserbo sui contenuti, ma assicura che le sei missioni in cui si articolerà il Pnrr sono già state sottoposte al vaglio preventivo di Bruxelles. Se tutte le scadenze verranno rispettate, tra luglio e settembre potranno affluire le prime risorse sotto forma di anticipo, che per noi ammontano a circa 27 miliardi. Sui passaggi di presentazione e attuazione del Piano – lo ha assicurato il ministro dell'Economia, Daniele Franco – il coinvolgimento del Parlamento sarà costante.
Se il contenuto del Recovery Plan sarà vincolante, si porrà comunque un problema, soprattutto sul versante delle riforme. Il primo sarà individuare già per le prime riforme in cantiere un ampio consenso all'interno della variegata maggioranza che sostiene il Governo. Operazione tutt'altro che agevole. Se sul versante delle semplificazioni e della riforma della Pubblica amministrazione l'intesa sarà possibile, non sarà una passeggiata individuare la necessaria sintesi su riforme come quella della giustizia e della concorrenza, su cui le ricette in campo divergono. Per non parlare poi del Fisco, con una riforma che il Governo intende mettere a punto in autunno perché possa entrare in vigore dal prossimo anno. La linea della Lega (favorevole in via di principio alla flat tax) non pare conciliabile con le proposte che provengono dal Pd e dallo schieramento di sinistra della coalizione, ferma sul principio della salvaguardia della progressività del prelievo. Il problema si riproporrà qualora - terminata l'esperienza del “governo del presidente” - dall'esito delle prossime elezioni politiche dovesse emergere una maggioranza la cui linea sulle riforme fosse decisamente diversa rispetto a quella espressa dai compromessi cui è inevitabilmente proiettata l'attuale coalizione. Un caveat da tener presente, dunque.
Per ora quel che conta è il segnale preciso, garantito dall'autorevolezza di cui gode il presidente del Consiglio in sede internazionale: la definizione del Piano nazionale di ripresa e resilienza è la scommessa che l'intero Paese intende giocare per garantirsi un futuro di crescita, da qui ai prossimi decenni. Condizione indispensabile per mantenere inalterata nel tempo la piena sostenibilità di un debito pubblico che viaggia verso il tetto record del 160% del Pil. Le incognite della variabile politica potranno essere superate solo se il Recovery Plan verrà percepito come la sfida collettiva di un intero Paese, in grado anche di rendere meno ingombrante il peso della cronica instabilità politica con cui da anni dobbiamo fare i conti.
Dino Pesole
Editorialista
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