di Helmut K. Anheier e Edward L. Knudsen
(JC Tardivon/SIPA / AGF)
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Nel 2022, la Germania dovrà adattarsi al fatto di essere governata da un nuovo cancelliere, il primo dopo oltre sedici anni. Ma questo non significa che l’era di Angela Merkel sia conclusa. I tedeschi, e gli europei, dovranno convivere con la sua eredità, e sebbene l’ex cancelliera sia stata quasi universalmente elogiata per la sua leadership risoluta, la storia futura potrebbe non essere così benevola nei suoi confronti.
In un’epoca di cambiamenti rapidi e radicali a livello mondiale, né la Germania né l’Europa sono riuscite a tracciare una nuova rotta ben definita. Sebbene Merkel abbia scongiurato svariate catastrofi, la sua prudenza può aver esacerbato numerosi altri problemi, come ad esempio la crisi finanziaria greca. Fra l’altro, molte crisi dal passo più lento in Germania – tra cui la sfida demografica, la stagnazione tecnologica, il cambiamento climatico e l’aumento delle disuguaglianze – hanno avuto modo d’inasprirsi essendo state trascurate.
Sicuramente, gli storici di domani sottolineeranno l’affidabilità di Merkel nella gestione della crisi, la sua leadership prudente, e la sua abitudine di ascoltare tutte le parti in causa prima di prendere una decisione. Tuttavia, con il senno di poi, apparirà anche evidente che è stata una regina in un regno di ciechi. In un’epoca in cui l’Europa era tormentata da un’emergenza dopo l’altra, l’ex cancelliera si è distinta non tanto per la sua lungimiranza quanto per l’assenza di leadership che la circondava.
Merkel non è stata una politica visionaria. Avendo iniziato il suo mandato subito dopo aver sconfitto con uno stretto margine l’ex cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, non ha mai tentato di attuare le drastiche riforme liberiste che lei e l’Unione cristiano-democratica avevano promesso durante la campagna elettorale del 2005. Che fosse il risultato di un calcolo elettorale o di un’autentica mancanza di impegno ideologico, l’ambizione strategica sarebbe stata gravemente carente nel resto della sua carriera politica.
Lo stesso vale per il suo ruolo all’interno dell’Europa. Pur essendo considerata un’europeista provetta, il suo approccio alla gestione della crisi ha spesso rivelato un’assenza di solidarietà europea. In varie occasioni ha preso decisioni unilaterali senza consultare o coinvolgere gli alleati, come quando ha detto addio all’energia nucleare o ha sostenuto il progetto Nord Stream 2, il gasdotto che dalla Russia arriva in Germania bypassando la Polonia e l’Ucraina, rendendole così più vulnerabili alle pressioni del Cremlino. Fra l’altro, durante le varie crisi dell’eurozona, Merkel ha fatto il minimo indispensabile per preservare l’integrità dell’Unione europea, rifuggendo quei cambiamenti che avrebbero conferito al blocco una base più stabile ed egualitaria.
Per molti versi, la sua leadership solida ma priva di visione è stata il prosieguo di un paradosso prevalente in tutto il periodo del dopoguerra. Da tempo la Germania predilige una leadership dall’aspetto innocuo, del tipo rappresentato dal famoso slogan elettorale di Konrad Adenauer «Niente esperimenti» (o di Merkel «Voi mi conoscete»). L’alternativa, per come la vedono i tedeschi, è una politica imprudente nello stile del presidente francese Emmanuel Macron, oppure la politica del rischio calcolato perseguita dal primo ministro britannico David Cameron quando ha concesso il referendum sulla Brexit.
Sebbene aneli al progresso e riconosca la necessità delle riforme, la Germania rifugge le scelte audaci. I cancellierati di Adenauer, Helmut Kohl e Merkel (che insieme hanno governato per un totale di 46 anni) sono stati l’emblema di una certa propensione tedesca per la stabilità politica, radicatasi profondamente in seguito al tumultuoso periodo 1910-1950. I cancellieri del dopoguerra meno avversi al rischio, come Willy Brandt and Schröder, sono durati a malapena oltre il primo mandato.
Il risultato è un Paese incapace di sostenere un programma di riforme a lungo termine. La frase «se qualcosa non è rotto, non aggiustarlo» riassume l’atteggiamento prevalente. Quando il bisogno di un cambio di rotta si fa pressante, i tedeschi si attengono al precetto enunciato da Tancredi Falconeri nel romanzo Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
In realtà, il centro politico della Germania è convinto di vivere già nel migliore dei mondi possibili. Tale atteggiamento, una combinazione di negazione e inerzia collettiva, viene alimentato dal suo federalismo (un complesso gioco di equilibri tra il governo centrale e i 16 Stati, sostanzialmente differenti per dimensioni e rendimento economico) e da un sistema di pubblica amministrazione che deve ancora adeguarsi al ventunesimo secolo.
La strada futura
Malgrado la tendenza alla stasi, la Germania ha fatto alcuni progressi sotto la guida di Merkel. Durante il suo governo, il tasso di disoccupazione complessivo è sceso da oltre l’11% nel 2005 a poco più del 3% nel 2019. Anche se ciò è stato in parte il risultato delle riforme Hartz IV del mercato del lavoro avviate da Schröder, Merkel ha gestito con successo un mercato del lavoro più controllato e una crescita superiore a quella di altri omologhi europei (seppure comunque inferiore a quella degli Stati Uniti).
Eppure, i dati complessivi sulla crescita e sulla disoccupazione nascondono un quadro più fosco. Oggi in Germania un bambino su cinque cresce in povertà. La mobilità sociale è tra le più basse dei Paesi Ocse, e la disuguaglianza è aumentata, tanto che adesso il 10% della popolazione detiene il 56% della ricchezza, mentre la metà inferiore ne possiede soltanto l’1,3%.
Inoltre, sul fronte internazionale la Germania ha esportato dannose politiche di austerità in tutta l’Ue, stroncando la crescita e abbassando il tenore di vita in gran parte dell’Europa meridionale.
Sul fronte interno, la Germania non è ancora pronta per il futuro. Secondo l’indice di digitalizzazione dell’Ocse, il Paese è in ritardo rispetto a molti suoi omologhi. Anche gli investimenti pubblici sono indietro in confronto a quelli di altri Paesi europei, il che in parte spiega perché le sue emissioni di CO2 pro capite restino ostinatamente elevate. E il surplus commerciale della Germania, in questo leader a livello mondiale, ha determinato gravi squilibri macroeconomici, che rischiano di mettere a repentaglio la già fragile eurozona e danneggiare indirettamente gli interessi economici a lungo termine della Germania stessa.
La Germania, dunque, soffre di Reformstau, un pesante arretrato di misure che devono ancora essere attuate o addirittura promulgate. Il problema è visibile non solo nell’ambito della pubblica amministrazione e della digitalizzazione, ma anche negli interventi a favore del clima, nelle infrastrutture, nell’istruzione e nell’assistenza sociale. In questi vari settori le riforme sono state ostacolate non da una carenza di fondi – la Germania registrava regolarmente surplus di bilancio già prima del Covid-19 e può ancora contrarre prestiti a tassi negativi – ma da una mancanza di volontà politica di sfidare gli interessi consolidati e le ideologie radicate.
La Germania ha urgente bisogno di una politica strategica e orientata al futuro. Il nuovo governo dovrà adottare uno stile di leadership moderno per scuotere il Paese dal suo autocompiacimento. E il Paese dovrà investire in digitalizzazione e interventi per il clima, stabilizzare l’eurozona promuovendo maggiori investimenti nei Paesi debitori dell’Ue, e sviluppare una politica estera coerente in sinergia con i partner europei.
Non sarà un’impresa facile. Un aumento della spesa per gli interventi sul clima, la digitalizzazione e l’assistenza sociale urterà contro lo scoglio del cosiddetto “freno all’indebitamento” (requisito del bilancio in pareggio). Ma queste regole possono essere rivedute e adattate per consentire maggiori investimenti. Allo stesso modo, mentre una maggiore flessibilità nella politica dell’eurozona potrebbe andare incontro a tensioni politiche, il ministero delle finanze tedesco ha già indicato la possibilità di un debito congiunto dell’Ue in determinate circostanze.
Infine, sviluppare una politica estera compatta a livello di Ue resterà un’impresa difficile, specialmente se implica un incremento sostanziale della spesa per la difesa. Ma le crescenti tensioni internazionali non lasciano altra scelta che dedicare maggiore attenzione al mondo fuori dall’Europa.
Il prossimo governo tedesco dovrà dimostrare l’intenzione di affrontare queste sfide di petto. L’alternativa è un ulteriore periodo di immobilismo che né la Germania né l’Europa possono permettersi.
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