di Chiara Di Cristofaro e Simona Rossitto
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I numeri crescono, nonostante le leggi, gli interventi, l’attenzione politica e mediatica. E sono numeri di donne uccise per mano di partner o ex partner, di donne che subiscono violenza e nella maggior parte dei casi non denunciano, non chiedono aiuto. E, se lo fanno, troppo spesso ancora oggi non trovano una risposta adeguata. Cosa stiamo sbagliando negli interventi per combattere la violenza maschile sulle donne?
La fotografia dell’Istat sugli effetti della pandemia sulla violenza è quella di un fenomeno costante, che non accenna a diminuire. Nel 2020, l’anno del primo lockdown, i femminicidi sono stati 106, 9 al mese. Dall’inizio dell’anno - dice la Direzione Anticrimine della Polizia di Stato - le donne uccise sono 109, una ogni tre giorni. Di queste, 93 sono state uccise in ambito familiare/affettivo (+7%), 63 di loro per mano del partner o dell’ex, quattro donne su 10 hanno lasciato figli piccoli. A fronte di un aumento del 2% degli omicidi in generale, le vittime di genere femminile salgono dell’8% rispetto allo scorso anno. Rispetto ai reati classificati come reati di genere, sono 89 ogni giorno e nel 62% dei casi si tratta di maltrattamenti in famiglia. Sempre di più provano a fermare la violenza: lo scorso anno le chiamate al numero antiviolenza e antistalking 1522 sono aumentate dell'80%, ma sono ancora poche le donne che arrivano a denunciare.
«Troppe le donne uccise, troppe le richieste di aiuto non adeguatamente e tempestivamente raccolte. Una vergogna della nostra civiltà», ha detto Marta Cartabia, ministra della Giustizia. E allora torniamo alla domanda iniziale, cosa stiamo sbagliando? Oltre ai numeri occorre guardare alle riposte che si stanno dando e che si intende dare. L’attenzione politica è alta, lo stesso presidente del Consiglio Mario Draghi è intervenuto dicendo che «la tutela delle donne è una priorità assoluta per il Governo».
In questo senso, è stato presentato in Consiglio dei ministri il nuovo piano strategico antiviolenza per il 2021-23, atteso per quasi un anno, che sarà accompagnato da un apposito piano attuativo. Quattro gli assi portanti: prevenzione del fenomeno, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Ma le criticità rimangono, i femminicidi non si fermano e, come denuncia Action Aid, nel 2020 solo il 2% dei finanziamenti per centri antiviolenza e case rifugio è arrivato a destinazione.
Per il giudice Fabio Roia, uno dei maggiori esperti nella tematica della violenza di genere, è il momento di creare un’Autorità centrale autonoma che gestisca le risorse: «Il piano antiviolenza, l’attuazione di piani regionali sono strumenti superati. Occorre un’Autorità centrale autonoma – dice il magistrato - che gestisca risorse, e che studi il fenomeno». L'autorità è una delle proposte della Commissione di inchiesta sul femminicidio, che favorirebbe il coordinamento necessario per contrastare in maniera efficace il fenomeno.
Un altro punto debole riguarda i fondi: secondo Action Aid, nel 2020 sono serviti in media sette mesi per trasferire le risorse per il funzionamento ordinario dei centri antiviolenza e delle case rifugio dal Dipartimento Pari opportunità alle Regioni che, ad oggi, hanno erogato solo il 2% delle risorse, e in soli due casi: Liguria e Umbria.
Ancora, i centri antiviolenza della rete D.i.Re. lamentano la mancanza del piano operativo, che «deve tradurre concretamente le tante azioni elencate nel Piano, che per ora sono meri enunciati». Le linee strategiche si concentrano anche su empowerment e violenza economica, con alfabetizzazione finanziaria, tirocini retribuiti, norme per favorire l’inserimento lavorativo. «Continuano a mancare – dice la vicepresidente di Pangea Onlus Simona Lanzoni – politiche strutturali che permettano l’empowerment rispetto al problema di trovare un alloggio o un lavoro che permettano alla donna di costruire un’autonomia nel tempo».
Oltre all'impegno sul piano, c'è quello sul fronte normativo. Negli ultimi anni l’impianto legislativo si è arricchito e nuovi interventi per aumentare la tutela per le donne che subiscono violenza sono in arrivo, per inasprire le pene e rendere più efficace la prevenzione.
Ma non basta: come mette in evidenza l’importante relazione della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, presentata ieri in Senato, se è vero che «appare opportuno un intervento legislativo» il punto centrale è che la risposta delle istituzioni non è sempre adeguata alle leggi che già ci sono, e questo «rischia di alimentare un clima di sfiducia nelle istituzioni da parte delle donne che subiscono violenza», come dimostra il fatto che tra le vittime di femminicidio solo una donna su sette aveva denunciato. «La donna non denuncia per un fattore culturale (senso di colpa, di vergogna, di inadeguatezza), economico (dove vado? come vivo?) e in parte perché non ha una piena fiducia verso l’istituzione giudiziaria in generale (polizia giudiziaria, servizi sociali e in misura minore magistratura)» dice il magistrato Fabio Roia. Troppo spesso, ancora, le donne si trovano di fronte a chi minimizza le denunce, chi parla di liti in famiglia che si possono sanare.
Il tema, quindi, è culturale. Come sottolinea anche la Relazione della Commissione sul femminicidio, bisogna promuovere una diffusa cultura del rispetto nei confronti delle donne. A partire dalla formazione, necessaria a più livelli: «Non riusciamo ancora a leggere in modo adeguato la violenza – spiega Fabio Roia - il femminicidio non è un evento improvviso agganciato ad un gesto di follia ma un gesto programmato che si snoda attraverso condotte violente prodromiche realizzate da un uomo che molte volte non accetta la fine della relazione da parte della donna. Come se si perdesse una cosa. Inaccettabile per chi gestisce situazioni di dominio basate sulla forza di genere. Bisogna capirlo e intervenire al primo segnale».
Chiara Di Cristofaro
Redattrice esperta Radiocor
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