di Silvia Poletti
(Foto Jean Louis Fernandez)
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REGGIO EMILIA. Il neo rettore dell'Università di Leicester incarna esemplarmente una storia di consapevolezza e visione, ingredienti preziosi per incidere sui processi culturali quanto e più forse, delle scienze studiate nelle accademie. Il neo rettore dell'Università di Leicester è infatti un artista: il danzatore e coreografo Akram Khan. Che è britannico, ma di ascendenze bengalesi e della sua cultura d'origine, vissuta nella quotidianità familiare ma anche nell'apprendimento della danza classica indiana Khatak, ha fatto il focus della sua identità artistica, riuscendo a ideare una scrittura teatrale originale sia nella forma ( un sapiente mélange di gesti di matrice etnica e espressioni creative contemporanee) sia nelle tematiche, memori della cultura d'origine ma anche della condizione di emarginazione vissuta dalla comunità British-Asian negli anni della sua formazione.
Grazie al suo carisma di danzatore e alla contingenza di una maggiore presa di coscienza del ruolo delle minoranze nel tessuto sociale britannico (coinciso il ritorno del partito laburista al governo nel 1998) nell'arco di venti anni Akram Khan si è così imposto come una delle personalità più autorevoli del nuovo Interculturalismo, ottimo ambasciatore del processo di evoluzione della convivenza delle varie parti del suo paese e- a largo spettro- del mondo occidentale, capace di parlare di temi politici e sociali grazie alle qualità sincretiche della sua danza.
Nel corso degli anni lo si è visto nei dialoghi con “l'altro da sé”: un altro outsider, come il magrebino-fiammingo Sidi Larbi Cherkaoui o l'altra metà del cielo, incarnata da Juliette Binoche. Ma anche nella rilettura di classici universali in cui ha saputo evocare la storia di soprusi vissuti dal suo popolo, come nell'acclamata Giselle o in XENOS.
Non sempre però, contenuto e forma trovano in lui il giusto equilibrio. Lo si è visto alla prima nazionale di Outwitting the Devil (Superare il demone in astuzia) in un Teatro Valli tutto esaurito. Khan attinge qui alla frammentaria epopea di Gilgamesh, l'eroe sumero che per tracotanza incorre nell'ira degli dei e si imbatte così nella morte dell'amico e nella vendetta della dea dell'amore: un intreccio complesso, pieno di simboli e di eventi (duelli, seduzioni, sogni, morti e apparizioni) che racconta una via esperienziale in fondo universale. Ma nell'allestire gli ottanta minuti di spettacolo -calati in un light design onirico di Aideen Malone e avvolti dalle ondate sonore dai tratti wagneriani di Vincenzo Lamagna- Khan si fa elusivo, caratterizza appena i sei personaggi in scena, mantiene tutto vago e indefinito, lasciando che siano i flussi di movimento, se mai, a evocare a tratti la ferocia delle divinità, la violenza dell'eroe distruttore, l'ingenuità del buon selvaggio.
Il messaggio insomma si dissolve in particelle di danza e si perde la morale della pièce (la hubris umana -coincisa con la distruzione di un sacro bosco di cedri-viene colpita dalla nemesi divina ieri come oggi). Non resta allora che abbandonarsi allo spettacolo nel senso letterale del termine, giacché la danza si fa guardare, eccome! Potente, energica, duttile, fatta di gesti guizzanti e espressioni selvatiche, magistralmente eseguita, tra scatti e flussi, controlli e abbandono dai sei interpreti, davvero eccellenti. Ma si esce da teatro con la sensazione che questa volta sia stato “il demone a metterci nel sacco”.
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