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Un alfabeto visuale per riscoprire l’iconicità dell’industria

di Giuseppe Lupo

Immagine non disponibile

1 aprile 2022
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3' di lettura

Che la fotografia sia stata uno degli strumenti più idonei a raccontare il mondo del lavoro in fabbrica – assai più efficacemente della pittura, che invece ha narrato (con tinte più morbide del tradizionale bianco e nero) la civiltà della terra e dell’agricoltura – è un dato su cui nemmeno occorre soffermarsi a lungo, tanto risulta evidente oggi come agli albori dell’industrializzazione. Che però essa non risponda solamente a esigenze documentarie, ma aiuti a interpretare la realtà, puntando su ciò che non viene mostrato, su ciò che rimane nella sfera del suggerito o del non detto, questo è un elemento che va di pari passo con il diffondersi del progresso tecnologico. Più vanno a intensificarsi i segni delle trasformazioni avvenute nei contesti periferici e urbani, più le immagini sembrano farsi laconiche, calano le intenzioni didascaliche e si intensificano invece le occasioni interpretative. Memoria e commento, nel Novecento, costi-tuiscono due elementi non sempre sovrapponibili, eppure nella concisione di un’immagine fotografica le due cose viaggiano verso un obiettivo comune: smaterializzare e decontestualizzare gli oggetti o le figure umane per farne paradigmi narrativi, forme di un racconto modulato per sequenze (negli anni 40-50 si sarebbe chiamato “film immobile”) in grado di esprimersi a volte meglio delle stesse parole.

Ne abbiamo conferma visitando la mostra «A visual alphabet of industry, work and technology», organizzata alla Fondazione Mast di Bologna dal 10 febbraio al prossimo 8 agosto, dove si radunano 500 immagini provenienti dagli archivi di 200 professionisti che nell’arco del secolo scorso hanno individuato nell’industria il centro dei loro interessi.

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Non importa individuare, per esempio, cosa ci sia dietro la parete della fabbrica milanese, immortalata da Gabriele Basilico nella foto che si intitola Via Isonzo (vedi sopra). Non conta cioè fare cronaca di questa immagine, piuttosto astrarre da essa il significato di un’esperienza simbolica, come se all’improvviso, in chi la osservi, sorga la necessità di chiudere gli occhi e lasciarsi conquistare dal ritornello malinconico di «Azzurro», cantato da Adriano Celentano. Basilico non si limita a documentare un attimo di un giorno, vuole rendere iconico quel preciso momento: la passeggiata di un uomo nella luce abbacinante di un pomeriggio estivo, che si stampa sull’intonaco della ditta Brandolini Metalli e restituisce il sospetto che la modernità sia anche (e soprattutto) una sorta di spaesamento. Spetta a chi guarda il compito di lanciarsi oltre la soglia delle informazioni contenute, chiedersi ciò che nello scatto non viene affermato: chi è quell’uomo e dove starà andando? La risposta si troverà più nel nostro immaginario che nell’arte di Basilico.

Non diversa è la reazione di fronte alla celebre istantanea di Sebastião Salgado, dove un gruppo di tecnici lotta per imbrigliare la furia del petrolio fuoriuscito da un pozzo. Poco o nulla vale sapere che si tratta di un qualcosa avvenuto in Kuwait, durante la Prima guerra del Golfo, nell’inverno del 1991. L’atteggiamento plastico dei tre operai in tuta si rifà a un sostrato che affonda in una dimensione leggendaria, in cui l’epica si trasforma in sfida contro la natura e si ammanta di caratteri universali. «Fotografia e industria traggono origine da un grande sforzo analogico» affermano in un testo scritto a quattro mani Isabella Seràgnoli e Urs Stahel, rispettivamente il presidente della Fondazione Mast e il curatore della mostra. E in tale affermazione si nasconde l’urgenza di fissare una regola compositiva allo sconfinato inventario di documenti esposti utilizzando l’espediente dell’ordine alfabetico che comincia dalla A del termine Abbandoned e giunge alla Z di Zip File. L’idea di un lemmario è quanto mai utile a costruire un’epopea del lavoro. Accorpare immagini per argomenti, per funzioni, permette di recuperare il senso di una totalità non ancora adulterata dall’abitudine di seguire, come si fa di consueto, le stratificazioni cronologiche. La foto di Basilico e quella di Salgado, tanto per intendersi, potrebbero essere il documento di
due epoche che non necessariamente rimandano agli anni 60 e ai 90.
La modernità, infatti, avanza seguendo linee non omogenee e
nemmeno uniformi, si attua nei luoghi mediante fughe in avanti
che poi, però, si lasciano alle spalle sacche di non moderno o di un moderno ancora incompleto.

Potrebbero apparire una incongruenza o una contraddizione le numerose disanalogie che si colgono in questo alfabeto visuale e invece sono manifestazioni di una complessità. È il caso della serie di ingressi di fabbriche, immortalati dallo statunitense Lewis Baltz e dalla tedesca Tata Rohnolz: nelle foto del primo, in California, la zona di accesso è chiusa da una costruzione a forma di cubo, in quelle dell’altra, in
Svizzera, si vedono i più tradizionali cancelli di ferro. Entrambe
le serie appartengono agli anni 70, ma presentano una vistosa
differenza: Rohnolz è ancora al cospetto del moderno, Baltz si trova
già con i piedi nel postmoderno.

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