di Antonio Larizza
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«Tutti mi dicevano che era impossibile farlo, ma i nostri ingegneri non sapevano che era impossibile. E l’hanno fatto». La celebre frase con cui Andrea Pontremoli, amministratore delegato di Dallara, ama descrivere il modo in cui è nato, nel 2011, il simulatore di guida più avanzato del mondo è diventata ormai un motto, un aforisma sul modo in cui si fa innovazione in Italia.
Il coraggio di accettare sfide industriali che altri hanno scartato. L’abilità di vedere prodotti quando ancora nessuno li ha pensati. L’inventiva di combinare l’esistente per ottenere ciò che non esiste. Gesti che i nostri imprenditori hanno ereditato da una cultura artigiana e che riproducono in contesti altamente industrializzati. E lo fanno come pionieri venuti dal futuro, ogni volta che scorgono la possibilità di far progredire una tecnologia, superare una frontiera, rivoluzionare un settore industriale. Come sta accadendo con la rivoluzione dell’auto elettrica.
Travolta dal Dieselgate, nel 2015 l’industria mondiale dell’auto accelera verso l’elettrico. E sente, come tante altre volte in passato, il richiamo del made in Italy: non c’è marchio automobilistico impegnato nella produzione di auto elettriche o suo fornitore che non sia venuto in Italia. Per poi tornare a casa con prodotti e soluzioni tecnologiche che prima, semplicemente, non esistevano.
Idee e tecnologie italiane che oggi muovono l’auto elettrica nel mondo, nate all’interno di imprese eccezionali. Storie di pionieri e innovatori, come quelle ora raccolte nel libro «Auto elettrica. L’Italia che non ha paura del 2035» (in edicola con il Sole 24 Ore a partire da sabato 8 aprile, in libreria, negli store online e su Shopping24 , ndr).
Il racconto inizia da Brescia, nella fabbrica di Idra Group, all’ombra di una Giga Press: le presse alte come un palazzo di quattro piani con cui dal 2019 Tesla stampa le sue vetture. La storia è unica, lo schema ricorda il “modello Dallara”.
Elon Musk, fondatore di Tesla, quando inizia la sua avventura immagina di stampare il pianale delle sue auto in un unico pezzo. Da quell’idea un po’ folle – una scocca tradizionale è composta da 400 componenti diversi – nasce la richiesta ai fornitori.
Tutti dicono che è impossibile. Tutti tranne uno: Riccardo Ferrario, direttore generale di Idra Group con un passato in Fiat. L’unico folle che risponde: «Ok, proviamoci!».
Oggi nel mondo sono attive 13 Giga Press, capaci di stampare il pianale di qualsiasi auto in soli tre pezzi. Altre 12 sono state ordinate. L’ultimo contratto è arrivato a Brescia dalla Corea del Sud, firmato Hyundai.
C’è poi la storia di Comau NJ-220, robot italiano “in fuga”. Nato a Torino e progettato usando 792 brevetti italiani, assembla batterie a celle di litio. Oggi riceve richieste di lavoro dalle gigafactory di tutto il mondo. Salda con il laser, ha una vista artificiale sviluppata al Politecnico di Bari e al posto degli occhi ha due termocamere. Può capire se una saldatura è venuta bene solo monitorando il tempo in cui essa si raffredda. Nessun robot ci era mai riuscito.
Ancora batterie, ancora Piemonte. Nei laboratori del Politecnico di Torino i pionieri guidati della professoressa Silvia Bodoardo – referente italiana del piano Ue Battery 2030+ – progettano per l’Europa una batteria intelligente, autoriparante e totalmente riciclabile.
Per svilupparla i ricercatori si sono costruiti una linea per produrre celle ioni-litio su scala pre-industriale. Nessun’altra università è mai arrivata a tanto.
Il viaggio alla ricerca dei pionieri italiani dell’auto elettrica prosegue in Toscana, per scoprire come mai ABB, la multinazionale elettrotecnica svizzero-svedese presente in 100 Paesi e con 105mila dipendenti, abbia scelto una delle sedi italiane per progettare e costruire Terra 360, la colonnina di ricarica più veloce del mondo: in 3 minuti carica 100 km di autonomia.
E poi a Modena, per studiare come farà Maserati a passare da 0 a 100% elettrica in soli 60 mesi. Proseguendo per Catania, nella valle dei chip dove dagli anni 80 StMicroelectronics studia il carburo di silicio: un materiale duro quasi come il diamante, trasparente come il vetro e più costoso del silicio. Ma anche più performante. La prima a scommetterci è stata Tesla, nel 2017. Oggi i chip al carburo di silicio sono uno standard per l’auto elettrica.
Qualcosa di simile succede alle porte di Milano, da dove EuroGroup fornisce a tutta l’industria rotori e statori: i due pezzi che accoppiati formano il cuore di un motore elettrico. Quando nel 2016 un marchio americano chiede a EuroGroup di eliminare le saldature da questi pezzi, per renderli più efficienti, nessuno pensava che a Baranzate ci sarebbero riusciti. Ma l’hanno fatto. E oggi i componenti EuroGroup sono a bordo di sei auto elettriche su dieci, nel mondo.
Il viaggio si ferma, ma non finisce, nei laboratori della Loccioni. Per scoprire che non c’è marchio o fornitore dell’automotive impegnato nella transizione elettrica che non sia sceso nelle Marche per far testare batterie, assali, motori e inverter agli innovatori guidati da Enrico Loccioni. Rinnovando il rito dell’innovazione “modello Dallara”.
Come quando, nel 2020, Toyota ordina un sistema per testare un motore elettrico fino a un regime di rotazione di 20mila giri al minuto. Enrico Loccioni – figlio di contadini e premio “Imprenditore olivettiano dell’anno” nel 2008 – non ha detto ai suoi ingegneri che era impossibile farlo. E loro, senza pensarci troppo, lo hanno fatto.
Antonio Larizza
giornalista
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