di Chiara Beghelli
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«L'oro è di valore, ma la giada è senza prezzo», recita un antico proverbio cinese. Confucio stesso, d’altra parte, sosteneva che quella gemma dal verde brillante avesse ben undici virtù, fra cui la benevolenza, la fedeltà, l’educazione e la sincerità. Una passione antica di millenni, per la prima volta entrata in contatto con l’Occidente nel Medioevo tramite gli occhi di Marco Polo, che ne vide il commercio lungo la Via della seta lungo il suo straordinario viaggio.
Il potere simbolico di “yu”, questo il nome cinese della pietra (“giada” è un termine coniato nel Cinquecento dai conquistadores spagnoli che ne avevano visto i benefici per la zona lombare - yjada, appunto - nelle popolazioni mesoamericane) è solo simile a quello che in Occidente possiedono i diamanti, perché lo supera decisamente. Ma la crescente passione della Cina per la giada, alimentata anche dalla crescita di una classe media che può finalmente permettersi un gioiello dai verdi bagliori, un prezzo in realtà lo ha. E molto alto.
Il Kachin è una regione montuosa e impervia nella parte più settentrionale del Myanmar. È da lì, e soprattutto dalla zona della città di Hpakant, che proviene oggi fra il 70 e il 90% della giadeite, la giada di migliore qualità (per giada si intende anche per esempio la nefrite, che è chimicamente diversa, più morbida, opaca e comune della giadeite). La migliore, ma anche la più insanguinata. Dai blood diamonds alla blood jade. Ma mentre l’industria mondiale dei preziosi è impegnata da tempo per regolare e rendere sempre più etici l’estrazione e il commercio dei diamanti (vedi il Kimberley Process), la tracciabilità della sempre più richiesta giada è praticamente inesistente.
Miniere nel Kachin (foto: Global Witness)
Secondo Global Witness, che alla giada birmana ha dedicato ampi studi e ricerche sul campo, nel 2014 il giro d’affari della gemma era di 31 miliardi di dollari, cifra pari alla metà del pil del Myanmar. Una ricchezza che è andata e va ancora a finanziare le due parti che da decenni animano il lungo e difficilissimo conflitto interno del Paese: l’esercito centrale, ufficialmente al potere dopo il colpo di stato del febbraio 2021, e le milizie indipendentiste. Circa il 90% della giada del Myanmar esce dal Paese senza essere tracciata, e fa presto a raggiungere la Cina, con cui il Kachin condivide i confini a nord e a est. Le estrazioni sono controllate dalla Myanmar Gem Enterprises, che fa capo al governo militare, e le ong che hanno potuto visitare i siti hanno denunciato un ambiente naturale devastato dal taglio delle falesie e soprattutto un’umanità che per pochi soldi sparisce e muore nel fango.
È quello che è successo nel 2020, quando le forti piogge hanno fatto crollare una parete di terra in un bacino artificiale: un’onda alta sei metri inghiottì oltre duecento persone. Si stima che ogni anno, nei mesi di più intensa attività estrattiva, fra i 300 e i 400mila minatori artigianali, gli yemase, raggiungano Hpakant dal resto della regione del Paese, una cifra pari a circa il 2% dell’intera forza lavoro nazionale. Non mancano minori, e per tutti il guadagno è infimo. Non solo: sempre secondo Global Witness, fra il 70 e il 90% dei minatori consuma droghe, un mix chiamato yaba, composto di metamfetamina e caffeina, per abbattere la fatica.
Minatori in attesa di iniziare la giornata di lavoro (foto: Global Witness)
Dopo il colpo di stato, nel corso del 2021 sia l’Europa sia gli Stati Uniti hanno stabilto il blocco delle importazioni di gemme birmane. Tuttavia in Cina, nel dicembre di quello stesso anno, Dui Zhuang Jade (gigante del commercio di giada con sede a Shenzhen) e la China Jewelry & Jade Jewelry Industry Association hanno pubblicato la quarta edizione del “China Jade Industry Consumption - The White Paper”, un report sul consumo di giada nel Paese. Lo studio riporta che la giada, e i gioielli soprattutto, è una delle categorie preferite dai collezionisti cinesi di oggetti di lusso, ancor prima di orologi, auto di lusso, vini pregiati e opere d’arte, con il 27% di intervistati che si era detto pronto ad acquistarla. Una scelta coerente con il boom dell’alta gioielleria inteso come bene rifugio in questi anni segnati da pandemia e inflazione.
Ma non è coinvolta solo la fascia di lusso: la progressiva crescita dei redditi e della capacità di spesa della classe media cinese alimenta anche il desiderio di creazioni in giada meno costose. Wenhao Yu, responsabile per Sotheby’s delle categorie gioielli e orologi per l’area asiatica, in un’intervista al New York Times ha detto che l’interesse per la giada, che è sempre stato molto alto nel continente, sta crescendo anche oltre i suoi confini, come dimostra l’aumento del 20% delle vendite di gioielli in giada rispetto al 2021 e una pari crescita del numero di collezionisti non asiatici.
La collana Hutton-Mdivani, il gioiello di giada più costoso mai battuto in un’asta
Lo scorso aprile, proprio a un’asta di Sotheby’s a Hong Kong (città dove esiste un importante mercato dedicato alla gemma, molto amato anche dai turisti), una parure di giada e diamanti è stata battuta per oltre 6 milioni di dollari. In maggio, lo “star lot”, il lotto più importante, dell’asta di Christie's “Hong Kong Magnificent Jewels” è stata una collana di 33 perle di giada, di diametro compreso fra i 12,3 e i 15 millimetri e dal colore perfetto, venduta per circa 9 milioni di dollari. Un collier Cartier, appartenuto alla famiglia De Rothschild, ha quasi doppiato la sua stima più alta, raggiungendo i 74mila euro, ma in realtà tutti i gioielli con giada battuti in quell’occasione hanno superato le loro migliori stime di vendita, nonché le quotazioni di pur eccezionali diamanti colorati. Ancora: l’asta dedicata da Bonhams ai gioielli e alla giada, lo scorso novembre sempre a Hong Kong, ha totalizzato il quarto risultato migliore di tutto l’anno per la casa britannica. Tuttavia, resta ancora imbattuto il record della collana di giada battuta nel 2014 per ben 27,4 milioni di dollari da Sotheby’s (a Hong Kong, ovvio), che Barbara Hutton ricevette come dono di nozze nel 1933 e con perle di eccelsa qualità che pare risalgano al Settecento. L’acquirente è stato Cartier.
Per i nuovi gioielli, la questione della materia prima è più complessa: il marchio britannico Asprey ha di recente lanciato una collezione di 60 pezzi realizzati con pietre antiche, perché, come ha sottolineato, di giada birmana estratta dopo la messa al bando non ne acquista più. In attesa che si formi e diffonda un sistema di tracciabilità anche per la giada, per essere certi dell’eticità del proprio acquisto, gli appassionati possono dunque guardare alle aste, oppure a pietre non provenienti dal Myanmar. Per esempio, quelle piemontesi. La “giada” italiana esiste davvero, anche se è una varietà particolare, certo non pregiata come quella birmana, ed è stata scoperta nei primi anni Duemila nell’area del Monviso a due “cristalliers”, cercatori di cristalli di montagna, Franco Manavella e Franco Salusso. Il suo nome è omfacite, e il suo verde è verde davvero.
Chiara Beghelli
Redattore
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