di Sergio Fabbrini
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Ci sono più di 2mila chilometri tra Kiev e Lussemburgo, ma le vicende dell’ultima settimana le hanno rese inaspettatamente vicine. A Kiev, c’è un confronto militare tra due visioni della sicurezza europea, a Lussemburgo c'è stato un confronto giuridico tra due modelli di politica europea. Vale la pena di capire le connessioni tra i due confronti.
Partiamo da Kiev. L’Ucraina è divenuta il terreno di scontro tra due visioni della sicurezza europea. Il presidente russo Vladimir Putin è determinato a costruire un equilibrio geostrategico basato su “sfere di influenza”, con il suo Paese che ritorna ad esercitare il ruolo di grande potenza continentale. Per Putin, l’obiettivo è portare l’Ucraina sotto il controllo della Russia, da cui si era ufficialmente allontanata nel 1990. Per Putin, la sicurezza del continente europeo consiste nella spartizione di quest’ultimo in due blocchi, come durante la Guerra Fredda.
Non è questa l’opinione della maggioranza dei cittadini ucraini, per i quali la sicurezza nazionale è invece garantita dalla partecipazione alle istituzioni occidentali, non solamente la Nato della cooperazione militare transatlantica, ma anche l’Unione europea (Ue) dell'integrazione economico-politica. La stessa opinione si era manifestata, nel dopo Guerra Fredda, in tutti i Paesi dell’Europa centro-orientale che si stavano sganciando dal controllo di Mosca, a cominciare dalla Polonia (il più grande Paese dell'area). Una opinione che appare oggi più diffusa che allora. Secondo un recente sondaggio dell'European Council on Foreign Relations (commentato su questo giornale da Ivan Krastev e Mark Leonard), la grande maggioranza dei cittadini dei Paesi dell’Europa centro-orientale (ad esempio, il 60% dei polacchi) ritiene che l’appartenenza dell’Ucraina all’Ue, non solo alla Nato, sarebbe la principale garanzia per prevenire l’invasione russa del Paese. Maggioranze (in particolare in Polonia) sono altresì favorevoli a un esercito europeo. Tutto chiaro? Mica tanto.
Arriviamo a Lussemburgo. Qui risiede la Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Cgue) che, il 16 febbraio scorso, ha emesso due sentenze parallele (Ungheria/Parlamento e Consiglio o C-156/21, Polonia/Parlamento e Consiglio o C-157/21) relative all’uso dei finanziamenti europei. Le due sentenze sono rilevanti perché respingono il ricorso dei governi della Polonia e dell’Ungheria contro “il meccanismo di condizionalità che subordina il beneficio di finanziamenti provenienti dal bilancio dell’Unione al rispetto dal parte degli stati membri dello Stato di diritto”. Con quelle sentenze, la Cgue legittima la Commissione europea a non trasferire i finanziamenti europei, sia di Next Generation Eu (Ng-Eu) che del Quadro Finanziario Pluriannuale (Qfp), ai Paesi che non rispettano (ad esempio) l’indipendenza della magistratura. Tali sentenze potrebbero bloccare i 36 miliardi destinati alla Polonia e i quasi 8 miliardi (di cui 6 come sovvenzioni) destinati all’Ungheria provenienti dal programma di Ng-Eu, oltre i fondi di coesione del Qfp di cui i due Paesi beneficiano (prima della pandemia, i trasferimenti finanziari dell’Ue rappresentavano il 5% del Pil ungherese e il 3,4% di quello polacco). Potrebbero bloccarli perché i governi polacco e ungherese si rifiutano sistematicamente di rispettare i principi dello stato di diritto che pure i loro Paesi avevano liberamente sottoscritto quando scelsero di entrare nell’Ue. Per quanto riguarda la Polonia, basti pensare alla sentenza dell’ottobre scorso del Tribunale costituzionale polacco, presa su sollecitazione del governo, in cui viene messa in discussione la supremazia dei principi dell’Ue su quelli della costituzione nazionale. Oppure, si pensi al rifiuto del governo polacco di rispettare una sentenza della Cgue che l’obbligava a sciogliere un organismo disciplinare introdotto per controllare i propri magistrati, rifiuto per il quale è stato multato a versare 1 milione di euro al giorno alle casse dell’Ue. Multa mai pagata. Non può stupire che, come risposta alle due sentenze della Cgue di mercoledì scorso, i premier polacco e ungherese si siano subito affrettati a minacciare l’uso del veto per le deliberazioni (come quelle del Consiglio europeo dei capi di governo) che richiedono l’unanimità. Da parte dei governi polacco e ungherese (e degli elettori che li sostengono) c’è un disconoscimento sistematico delle ragioni legali, oltre che morali, su cui si basa l’Ue. Quei due governi (con il sostegno di altri governi dell’area centro-orientale) perseguono una strategia finalizzata a scardinare (dall’interno) i principi della democrazia liberale, del mercato unico e dello stato di diritto. Per questo motivo, il governo polacco vuole fare entrare l’Ucraina e il governo ungherese la Serbia all’interno dell’Ue, proprio per rafforzare il blocco nazionalista impegnato a contrastare il progetto di integrazione sovranazionale. Se Budapest vede Mosca come un alleato, Varsavia la vede come un nemico. Eppure, Varsavia è ispirata dagli stessi principi illiberali ed è impegnata nelle stesse pratiche autoritarie che caratterizzano Mosca. Avendo usato l’allargamento per garantire la sicurezza, l’esito è la paralisi dell’Ue.
Ecco perché Kiev e Lussemburgo sono vicine. A Kiev, si pensa che la partecipazione all’Ue sia la vera garanzia per la sicurezza del Paese. A Lussemburgo, i giudici della Cgue hanno ribadito che l’Ue non è un’associazione internazionale, ma un’unione basata sulla condivisione dei valori liberali dello stato di diritto. Putin va fermato, sì, ma con una politica europea della sicurezza.
Sergio Fabbrini
editorialista
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