di Dario Ceccarelli
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È nato il 13 dicembre 1970. Oggi avrebbe quindi 53 anni. Sarebbe un uomo di mezza età, anche se ormai la mezza età è un concetto sempre più sfumato. Marco Pantani, morto per cocaina il 14 febbraio 2004 al Residence la Rose di Rimini, in realtà non è mai morto. E non solo perché la sua fine ha ancora degli angoli oscuri. Come tutti i miti dello sport - ma lui lo è più degli altri - viene evocato in qualsiasi occasione, in qualsiasi momento. Una presenza-assenza imprescindibile nelle discussioni, nelle canzoni, nei paragoni. Se vai al Giro d’Italia, soprattutto in una tappa di montagna, c'è sempre qualche scritta o qualche bandiera, la bandiera del Pirata, che lo ricorda e lo celebra.
Ma non col dolore che si dedica ai giovani campioni scomparsi. No, lo si ricorda come se fosse ancora in corsa. Pronto a scattare al primo tornante favorevole, con quel suo cerimoniale da pugile o da samurai: via il berretto, via gli occhialini, via la bandana, via anche l' orecchino. Era il segnale per tutti che scattava l'ora x. Una specie di gong che dava il via al suo attacco. Elettricità pura, una scossa di terremoto. La magia che prelude a qualcosa di memorabile. E quei cartelli, ancora oggi, ricordando Pantani, ricordano soprattutto quel sentimento. Come Fausto Coppi, anche lui morto giovane, anche lui sempre in pericoloso bilico tra vittoria e sconfitta, tra gioia e dolore, tra tenera fragilità e schiacciante superiorità.
Rievocare Marco Pantani, con tutti i suoi potenti ricordi, è come toccare un filo ad alta tensione. Non si può essere equilibrati, dosare con freddezza pregi e difetti, neppure a quasi 19 anni dalla sua scomparsa. Non è concesso perché con Pantani o si è con lui, o meglio lasciar perdere. Ha dato troppe emozioni, troppe sofferenze. Pantani il Fenomeno, Pantani il Pirata, Pantani lo scalatore, Pantani contro tutti, Pantani contro se stesso.
Difficile trovare un campione, e non solo del ciclismo, che incarni tutte queste maschere, tutte queste gradazioni di emozioni. L'unico che forse gli sta dietro, nel bene e nel male, è Diego Armando Maradona. Però di Maradona abbiamo vissuto tante fasi delle sua seconda vita, l'abbiamo in un certo senso metabolizzato.
Pantani ci è invece sfuggito tra le mani a 34 anni, con l'orribile sensazione, anche se lui ci ha messo del suo, di non aver fatto tutto il possibile per trattenerlo, per non farlo precipitare, lui che era il re della salite, in una discesa senza fine.
Già da ragazzino era irrequieto. Ma a modo suo. «Anche se lo sgridavi non piangeva mai», racconta Mamma Tonina. Nato a Cesenatico, in quella riviera romagnola che fa da cartolina alle vacanze estive di molti italiani. Marco Pantani è uno studente svogliato. I genitori fanno fatica a stargli dietro. Dopo la terza media si iscrive alla scuola per radio e riparazioni. Nel calcio è veloce ma non sfonda. È un'ala destra, ma troppo leggero. Una spallata e va giù. La rivelazione gli arriva a 12 anni, quando un amico lo porta alla Società Ciclistica Fausto Coppi. Si capisce al volo che ha qualcosa in più. Quando nel 1992 conquisterà il Giro d'Italia dilettanti, Pantani dirà con soddisfazione: «Con un fisico, che era la metà dei miei coetanei, riuscivo perfino a vincere». Il più contento è nonno Sotero, l'unico che ha sempre creduto in quel ragazzo un po' sognatore. che va a scuola con un coltellino in tasca. «Lo faccio per difendere i deboli», gli rispondeva Marco con cipiglio.
Da professionista spicca il volo. Nella Carrera, con Claudio Chiappucci capitano. Marco dovrebbe fare il gregario, il giovane di bottega. Ma non è nel suo dna sacrificarsi per gli altri. E al Giro d'Italia, il 4 giugno 1994, s'inventa una doppietta memorabile. Prima s'impone (e questo chi è?) nella tappa Lienz -Marano. Il giorno dopo, quasi ribalta il Giro sul Mortirolo, la Montagna Sacra degli scalatori. Con Pantani ci sono la maglia rosa Berzin e Chiappucci. Ma contro la realtà c'è poco da fare: Pantani vola, gli altri, che sono umani, possono sola salvare la classifica. Perfino Indurain, che Marco aspetta in cima, viene poi umiliato sul valico di Santa Cristina. Mai nessuno aveva osato: Il sovrano è disarcionato. E Pantani all'Aprica viene accolto come il nuovo re.
“Pantani sei un mito” titola la Gazzetta dello sport. Il direttore, Candido Cannavò, scrive entusiasta: “Ah, Pantani, ti rendi conto di quello che hai fatto? Con quei 56 chili di ossa e di muscoli e quei rarissimi capelli forse congelati, tu, oscuro ragazzo sbucato da chissà dove, hai inventato un nuovo Giro, stravolgendone le gerarchie. Hai cavalcato un sogno che sembrava impossibile”.
Questo è Marco Pantani. In questa doppia impresa c'è già tutto il campione che sarà. Simile davvero a Fausto Coppi la sua carriera è costellata di rovinosi incidenti. Al Tour del '94, in montagna, cade picchiando il ginocchio destro. Sanguina, si lamenta, vuole ritirarsi. All'improvviso però gli si riaccende la luce. E stacca di nuovi tutti. Anche i francesi sono sbalorditi. Alla fine, con Indurain maglia gialla, Pantani si classificherà terzo. Ma una cosa è chiara: è nata una stella, gli altri possono solo girarci attorno.
La sfortuna però lo insegue con precisione chirurgica: auto che lo investono, gatti che gli tagliano la strada, un gippone che gli finisce addosso contromano nella Milano-Torino. Frattura esposta di tibia e perone. Pesanti anche gli effetti collaterali: quando dovrà essere operato al Cto d Torino, i medici, secondo l'indagine del Pm Guariniello, vengono allertati perché Pantani ha un ematocrito superiore al 60 per cento. Un livello anomalo che dopo l'intervento crollerà al 30 per cento nonostante diverse trasfusioni che non fanno però risalire i globuli rossi. Un’anomalia, concluderanno gli inquirenti, spiegabile solo con un uso continuato di Epo, la nota sostanza che aumenta l'ossigeno nel sangue favorendo migliori prestazioni.
La rinascita è nel 1997 quando Luciano Pezzi, altra figura chiave nella sua vita, lo porterà nella Mercatone Uno, la squadra del cuore costruita su misura per Marco. Una squadra romagnola dove sono tutti amici: massaggiatori, meccanici, compagni. In questo ambiente Pantani ridiventa Pantani riconquistando l'Alpe d'Huez.
Quando taglia il traguardo, su quella cima leggendaria, lancia un urlo feroce, di rabbia compressa e primitiva. Sul cranio rasato porta la bandana. Per tutti è diventato il Pirata. Il 1998 è il suo anno magico, quello della doppietta Giro e Tour. Al Giro l’unico che gli tiene testa, sulle rampe del Monte Campione, è il russo Pavel Tonkov, un robot costruito per vincere. Pantani è invece un artista che improvvisa, come Charlie Parker il suo jazzista preferito. Un corpo a corpo memorabile. Al quinto scatto del romagnolo, Tonkov cede. E Marco va a vincere. Più soffro e più godo è il suo motto.
«Perché vado così forte in salita? per abbreviare l'agonia», dirà a Gianni Mura, inviato di Repubblica. Pantani trionfa anche al Tour, dove va solo per onorare Luciano Pezzi, da poco mancato. In quel Tour marchiato dallo scandalo Festina, Pantani risale la classifica a mano a mano che salgono le montagne. Dopo aver vinto a Plateau de Beille, si scatena sulla tappa del Galibier, travolgendo la resistenza del tedesco Jan Ullrich. In uno scenario autunnale, di pioggia e nuvole basse, il Pirata taglia il traguardo illuminato dai fari delle ammiraglie. Ullrich arriverà nove minuti dopo, bianco come uno spettro. Un trionfo che fa dimenticare un Tour marchiato dal doping e da un pesantissimo clima poliziesco.
Pantani è lanciato. E con lui il ciclismo italiano che riacquista una popolarità che non aveva più dai tempi di Bartali e Coppi. Con Pantani in corsa tutti si inchiodano davanti al televisore. Ai giornali fa vendere milioni di copie. Mai vista tante gente, mai visto tanto tifo sulle strade, nei bar e nelle case. Una pressione che esplode quando, un anno dopo, il 5 giugno '99, poche ore prima che parta la tappa regina del Giro (con le cime del Gavia e del Mortirolo), Pantani viene fermato a Madonna di Campiglio per ematocrito troppo alto. La notizia raggela milioni di persone, compresi i tifosi già assiepati sulle strada verso l'Aprica. Molti non ci credono, pensano a un atroce scherzo per colpire uno degli uomini più popolari d'Italia. Già si parla di complotto, di altri corridori che gliel'hanno giurata perché lui è troppo forte. Pantani, che ha già vinto quattro tappe, compresa quella di Oropa dove per una salto della catena ha rimontato 49 corridori, sarebbe infatti avviato a una schiacciante vittoria.
Eppure, dopo 5 controlli, il verdetto è quello: il suo ematocrito, tra il 52% e il 53%, è fuori norma. Non è una prova di doping, ma il regolamento impone che sia sospeso per 15 giorni. Dopo aver spaccato un vetro, scortato dai carabinieri, Pantani dirà: «Mi sono rialzato tante volte, ma questa volta sarà molto difficile».
Qualcosa si rompe, per sempre. Marco non accetta la positività. Se la prende coi giudici, li accusa di aver scambiato le provette.. Come tanti atleti, rimasti invischiati in queste vicende opache, potrebbe tornare in corsa 15 giorni dopo, Ma non fa e si perde. Si stacca dai genitori, si stacca dalla fidanzata, non ascolta neppure Alfredo Martini, il cittì degli azzurri, suo grande amico e sostenitore. Lo stesso Felice Gimondi, suo presidente, è allibito. Anni dopo dirà: «Marco ha sbagliato, avrebbe dovuto fare come Eddy Merckx che, quando fu trovato positivo al Giro, andò poi subito al Tour, vincendolo».
Ma Pantani non ci sente. È chiuso in una bolla di rabbia e solitudine. Riemerge dal silenzio solo con notizie allarmanti: auto distrutte, serate balorde in discoteca, ricoveri in clinica per disintossicarsi. Ha due guizzi al Giro del 2000 quando aiuta Garzelli a conquistare la maglia rosa. E poi al Tour de France dove per due volte batte Lance Armstrong, nuovo arrogante padre padrone delle corse, cui anni dopo verranno tolti ben sette Tour proprio per doping.
Però Pantani non è più il mattatore. E solo una persona fragile, malata, che avrebbe bisogno di aiuto. Sparita la folla, spariti gli amici, resta solo con quella rabbia dura come la pietra. «Per uscire da quel gorgo avrebbe dovuto autodenunciarsi, ma non voleva perché avrebbe coinvolto troppa gente», dirà poi Candido Cannavò.
Alberto Tomba, campionissimo di sci, anche lui braccato dalla popolarità, lo ricorda con affetto. «Era un ragazzo buono e sensibile, ma molto sfortunato. Si è lasciato andare. Si è quasi allontanato dalla gente invece di cercarla. Capita quando sei circondato da chi ti è amico soprattutto quando vinci».
E solo sarà anche quel sabato di San Valentino, in balia di delinquenti e spacciatori. Lo troveranno senza vita alle 21.30 nella stanza 5 D del Residence la Rose, ora ritrasformato in una moderna Spa. Riverso sul pavimento, con dei graffi in faccia, vicino a una pallina di pane e cocaina. «Me l'hanno ammazzato», griderà mamma Tonina tornata di corsa da una vacanza in Grecia.
Ma le inchieste, nonostante diversi ricorsi, ribadiranno che la morte è addebitabile a “intossicazione acuta di cocaina “ senza l'azione di terzi. Dei tre spacciatori, solo uno verrà condannato, ma poi assolto in Cassazione per assenza di prove. Molti non ci credono, escono anche libri che contestano questa ricostruzione. È difficile credere che un campione come Pantani possa finire cosi. Qualcuno, grazie anche a magistrati in cerca di popolarità, tirano in ballo la camorra. Si aprono puntualmente nuove inchieste, nuovi fascicoli che promettono chissà quali rivelazioni. Ma quel Pantani, fortunatamente, è sempre più lontano. Rimane invece vivo, scolpito nel cuore, quel ragazzo impertinente che ci ha fatto sognare. Con quel cappellino che vola in aria come una manciata di coriandoli a carnevale.
Dario Ceccarelli
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