di Simone Filippetti
Ucraina, Johnson: "La Russia diventerà uno Stato di paria"
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Nel livello superiore della tribuna Matthew Harding dentro lo stadio di Stamford Bridge, la sede del Chelsea Football Club, c'è una bandiera della Russia, con la scritta in caratteri cirillici “Impero Romano”. Quella bandiera non ha un simbolo politico, ma è stata piazzata lì dai tifosi: è dimostrazione di gratitudine verso Roman Abramovich, l’oligarca russo che ha comprato il Chelsea nel 2003 e, allargando i cordoni, ha rapidamente trasformato il club in una delle moderne superpotenze del calcio. Vincitori seriali in Premier League e due volte campioni d'Europa in meno di dieci anni: vittoria in Champions League nel 2012, sotto la guida dell'italiano Roberto Di Matteo; e l'anno scorso.
Ora è probabile, però, che quella bandiera venga rimossa dallo stadio: dopo l'invasione russa dell'Ucraina, il Paperone russo è stato messo al bando. E addirittura si affaccia l'idea che anche il club possa essere sfilato dalle sue mani. Il Governo inglese ha deciso che non potrà più vivere nel Regno Unito, come mossa di ritorsione verso Mosca e il premier Vladimir Putin: bloccare gli interessi economici dei tanti oligarchi russi che hanno messo radici nel Regno Unito. E hanno usato il mondo del calcio come apripista.
Abramovich, magnate con una fortuna stimata in 14 miliardi di dollari (cifra che lo pone “solo” 131esimo posto al mondo secondo Forbes) è stato uno dei primi russi ad investire su Londra: dopo la privatizzazione dell'ex impero sovietico sotto Boris Yeltsin, nei primi anni ‘90, gli oligarchi russi, un gruppo di imprenditori privati emersi dalla dissoluzione dell'Urss, hanno iniziato a trasformare la capitale inglese in una sorta di “Monopoli” a cinque stelle, versando miliardi di rubli che partivano da Mosca: hanno accumulato beni di tutti, dall'immobiliare alle auto di lusso.
Tra i pionieri, Boris Berezovsky, padrone del colosso automobilistico AutoVAZ , e il suo “delfino” Abramovich. Il sistema societario-legale inglese, pochi controlli e poca burocrazia, ha favorito per anni l'afflusso di capitali russi. Con l'acquisto, per la prima volta nella storia, di una squadra di calcio della Premier League, da parte di un russo, scatta qualcosa. Il calcio è stato un salto di qualità: fino ad allora gli oligarchi russi facevano sfoggio di ricchezza a Londra, ma erano tutto sommato delle figure di secondo piano, non facevano parte dell'establishment.
Grazie al Chelsea, Abramovich diventa un personaggio pubblico, ma soprattutto potente. E dunque intoccabile, perché finanzia apertamente il partito conservatore. Il tempismo è cruciale: la svolta coincide con l'ascesa di Vladimir Putin, che nell'aprile del Duemila viene eletto presidente della Russia.
Da lì l'ingresso nel pallone, allora industria dell’intrattenimento agli esordi: dopo il Chelsea, anche l'Arsenal, altro glorioso club di Londra, oggi un po' decaduto, finisce in mani russe. Sono quelle del “Re dell'Acciaio” Alisher Usmanov, che compra il 30%. Il magnate russo, che ogni estate viene avvistato in Costa Smeralda con il suo super yacht, ha poi venduto la quota, ma è rimasto comunque nel mondo del pallone: è uno degli sponsor dell'Everton, il club rivale del Liverpool.
E gli oligarchi che non dispongono della medesima potenza di fuoco di Abramovich o Usmanov per mirare alla prestigiosa Premier League, si accontentano anche della seconda divisione: il non famosissimo AFC Bournemouth, che milita nella Serie B inglese, è stato comprato per 850mila sterline da Maxime Demin, un trader nel settore petrolchimico.
Ironia della sorte, l'ultimo magnate “russo” a entrare nell'agone del calcio del Regno Unito è stato un ucraino: Len Blavatnik, nato a Odessa, nella parte russa dell'Ucraina (quando ancora era Unione Sovietica). Nel 2018 ha fondato DAZN, la piattaforma internet che trasmette le partite di calcio in tutta Europa (in Italia ha fatto un accordo con la Serie A e Tim).
La presenza russa nella capitale è arrivata a un punto tale che i giornali hanno coniato il nomignolo “Londongrad”, titolo preso a prestito anche da una serie tv russa, ma girata a Londra (prima volta nella storia), che ironizzava sui russi “gangster” nel Regno Unito.
Ora però si preannunciano tempi duri per i magnati russi a Londra, finiti nel mirino delle sanzioni del Regno Unito, che per ora hanno risparmiato Demin, forse pesce troppo piccolo per essere rappresentativo. Punire gli oligarchi, però, è più facile a dirsi che a farsi. Il pallone è un grande scudo: «Il calcio è una polizza d'assicurazione per i cleptocrati russi» commenta Arthur Doohan, co-fondatore di ClampK, una ONG specializzata nello scovare forme di riciclaggio di denaro. E l'idea di sequestrare ad Abramovich il suo club è molto pericolosa da attuare: «La politica difficilmente si mette contro il calcio perché sa che è un argomento impopolare. Si perdono consensi se si toccano i tifosi».
In tempi di guerra, la diplomazia passa anche attraverso il pallone: prima ancora che scoppiasse il conflitto, il premier inglese Boris Johnson aveva invocato che la finale della Champions League, casualmente quest'anno prevista a San Pietroburgo, venisse spostata altrove, come ulteriore forma di punizione contro la Russia. Subito la Uefa ha deciso di cancellare la finale e scegliere un'altra località: il Regno Unito sperava di spostarla a Wembley come aveva già provato a fare lo scorso anno, allora causa Covid, ma la Uefa ha deciso per Parigi.
Lo sfuggente Abramovich, che dagli inglesi ha imparato l'understatement, il basso profilo, potrebbe eludere le sanzioni: nel 2018 gli fu rifiutato il rinnovo del visto britannico e aveva preso un passaporto israeliano per continuare a entrare nel paese. Potrebbe farla franca anche stavolta.
Le sanzioni contro gli oligarchi russi sembrano punire in realtà un potere inesistente. Perché la presa finanziaria della Russia su Londra, culminata sotto il governo di David Cameron, sta scemando già da anni, ancor prima del giro di vite di Johnson. Tra il 2005 e il 2014, anno del picco del Cremlino,la Russia ha raccolto 44 miliardi di dollari sulla Borsa di Londra. Dal 2014 a oggi, secondo un calcolo del Financial Times, l'ammontare è sceso a 8 miliardi. Certo ci sono ancora 25 aziende russe quotate sul London Stock Exchange (pesantemente colpite dai ribassi degli investitori). Ma l'epoca degli oligarchi russi ha imboccato il viale del tramonto: da anni gli investimenti sono in calo.
Nell'autunno del 2007, una domenica di ottobre, Abramovich e Berezovsky, che nel frattempo era diventati arci-nemici, si trovano faccia a faccia a Knightsbridge, nel cuore dei negozi di lusso: il patron del Chelsea era a fare shopping da Hermes; l'altro era nella boutique di fianco, da Dolce&Gabbana.
Si formò subito una folla di curiosi, perché la strada era praticamente occupata dalle guardie del corpo, che si guardavano in cagnesco e quasi vengono alle mani. La tensione, palpabile, fu stemperata dall'anziano Berezovsky che uscì dal negozio e consegnò un pacco nelle mani di Abramovich, come “segno di amicizia”. Il folkloristico siparietto era la fotografia di come Londra fosse ormai territorio russo, Londongrad appunto.
Ma oggi non è più così, o comunque lo è molto meno. Al posto dei russi, il calcio sta passando in mano agli arabi, freschi proprietari del Newcastle. Sono loro i nuovi ricchi emergenti nella capitale britannica.
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