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Munari, Mannucci e la Fulvia 14: una leggenda da conservare pura

di Mattia Losi

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(Afp)

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Cinquant’anni fa, con la Lancia Fulvia HF numero 14, i due campioni firmavano una delle più incredibili imprese nella storia dell’automobilismo

27 gennaio 2022
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5' di lettura

Nella vita ci sono cose facili e difficili, cose che si possono fare e altre che sono impossibili, sogni che si realizzano oppure che sono destinati a rimanere tali, refrattari al trascorrere inesorabile del tempo. Alla partenza del Montecarlo 1972, all’ombra della grande Cattedrale di Almeria, Sandro Munari e Mario Mannucci erano considerati vittime sacrificali sull’altare delle Alpine padrone di casa: destinate, o per meglio dire predestinate, a contendersi la vittoria finale nella competizione più importante del rallysmo mondiale. Poco lo spazio concesso ad altri: forse alle potentissime Porsche, non di certo a quella coppia di italiani ricchi di talento ma evidentemente penalizzati da una macchina troppo vecchia, troppo pesante e troppo poco potente.

La possibilità di una loro vittoria con quella piccola Fulvia HF rossa e nera, con il numero 14 sulle portiere, era semplicemente catalogata tra le cose impossibili da fare e tra i sogni destinati a rimanere tali. Mai e poi mai il suo muso, con la scritta Lancia-Italia sul cofano, avrebbe potuto arrivare per primo sul lungomare del Principato di Monaco. La passerella d’onore sarebbe stata certamente riservata all’Invincibile armata, come era stata ribattezzata la Squadra ufficiale delle Alpine.

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Sandro e Mario si erano ritrovati con accanto gli avversari più pericolosi già alla partenza: Andruet-Pagani, Andersson-Davenport, Darniche-Mahe. Il Rally di Montecarlo partiva dalle più disparate città: Almeria, Atene, Francoforte, Glasgow, Lisbona, Marrakech, Montecarlo, Oslo, Reims e Varsavia. Ma gli equipaggi più forti della casa francese avevano scelto, proprio come Sandro e Mario, Almeria. E adesso bisognava fare i conti con loro fin dal lunghissimo percorso di avvicinamento: quasi 3.500 chilometri da volare tutti d’un fiato per arrivare al percorso finale che avrebbe deciso la classifica e incoronato i Re del Monte. Anche quella non sarebbe stata una passeggiata, con oltre 2.000 chilometri complessivi scanditi da 32 frazioni e 15 prove speciali cronometrate.

Quello che i francesi non sapevano era che Sandro e Mario, soprannominati Il Drago e Il Maestro (e già questo avrebbe dovuto metterli in allarme) non avevano alcuna intenzione di fare da comprimari. Avevano preparato quel Montecarlo fin dai minimi particolari, con un lavoro iniziato a tavolino molto prima di presentarsi ad Almeria: gomme, motore, carburatori, strategia di gara, assistenza, nulla era stato lasciato al caso. La vecchia Fulvia era sempre vecchia, ma era la migliore che fosse mai partita per una competizione di quel livello: indistruttibile, inarrestabile. Che ci provassero gli altri a tenere il suo ritmo, se ne erano capaci, perché Sandro e Mario non avrebbero mollato nemmeno per un millimetro.

E Sandro e Mario non mollarono, mai: volarono nelle prove di velocità pura, contrastando metro su metro le Porsche che avevano il doppio dei cavalli. Passarono come un raggio di luce nella bufera di neve sul Burzet, bucando il muro bianco che tentava invano di fermarli e lasciandosi tutti alle spalle. Chi racconta il Montecarlo del 1972 come una sorta di miracolo, o peggio come un colpo di fortuna, dimentica che Sandro e Mario sono rimasti in testa alla classifica generale più di chiunque altro.

Per fermare quella piccola Fulvia e i suoi straordinari cavalieri, i francesi provarono di tutto: inclusa una penalizzazione di due minuti che aveva mandato Il Drago su tutte le furie e li aveva retrocessi in terza posizione alle spalle di due Alpine. Mai far arrabbiare un Drago.

Il Col de Turini viene ricordato come il momento del trionfo, eppure al primo passaggio nella seconda prova speciale del percorso complementare li aveva respinti a causa di un errore nella scelta delle gomme: chiodatura leggera, visto che c’era poca neve. Ma una volta arrivati al dunque di neve ne era scesa fin troppa: 3 minuti di ritardo, e tutti a inneggiare alle Alpine, come da copione scritto prima della partenza.

Chiunque si sarebbe arreso, perché quei 3 minuti pesavano come un macigno. Chiunque tranne Il Drago e Il Maestro, chiunque tranne quella piccola Fulvia HF numero 14 che schiumava rabbia e fatica per tenere il passo delle Alpine e delle Porsche. Anche lei aveva un sogno: mettere il suo muso, con la scritta Lancia-Italia, davanti a tutti gli altri. Che la spremessero pure, che le togliessero ogni goccia di olio e di benzina, ma nemmeno lei si sarebbe arresa. Avrebbe dato a Sandro e Mario tutto quello che le chiedevano, spingendosi oltre il limite del possibile.

Tornarono sul Turini, mentre gli avversari cedevano di schianto incapaci di tenere il ritmo infernale che quei maledetti italiani avevano imposto nel cuore della notte. La Fulvia non era più vecchia e pesante, era un mostro inarrestabile che azzannava i fianchi della montagna: metro dopo metro, assecondando la voce tranquilla di Mario che leggeva le note e le magie di Sandro che la guidava verso il trionfo. Sui lati della salita due ali di folla impazzita che sventolava il tricolore, tifosi come damigelle d’onore al gran ballo della vittoria.

L’alba del 28 gennaio li colse sul rettilineo del lungomare del Principato di Monaco: Sandro, Mario e la Fulvia 14. Non c’era fretta, il motore borbottava tranquillo mentre il traguardo si faceva sempre più vicino. Dopo la neve, il gelo e la notte potevano scaldarsi con i primi raggi del Sole, che si alzava sulle acque del porto per illuminare una scena che nessuno tranne loro aveva osato immaginare.

Cinquant’anni, ed è stato un attimo: chiunque abbia vissuto quei momenti ne custodisce un ricordo intimo, personale, immutabile. Davanti a Sandro e Mario resterò sempre un bambino di 10 anni, con gli occhi pieni di lacrime perché i miei eroi avevano scalato la vetta del Monte e sbaragliato il resto del mondo.

Uomini capaci di simili imprese scavalcano i limiti della storia ed entrano nella leggenda, trascinando con sé tutti quelli che li hanno aiutati a scrivere una delle più straordinarie pagine del grande libro dell’automobilismo. Chiunque si lasci andare a precisazioni, puntualizzazioni, distinguo su ruoli e meriti pensando di ritagliarsi uno spazio diverso e più importante, semplicemente sbaglia: nulla è più grande della leggenda di cui fate parte. Non rovinate i nostri ricordi di tifosi. Non lasciate che la banalità degli egoismi umani vi riporti nel mondo reale, fuori da quell’Olimpo in cui vi abbiamo collocato insieme a Sandro, Mario e la Fulvia.

Tutti gli uomini che hanno partecipato a quell’incredibile, magico Rally del 1972 sono e resteranno per sempre nel nostro cuore. Parte di un irripetibile momento che nessuno potrà mai dimenticare e che merita di essere conservato intatto, puro, scolpito nel tempo. Cinquant’anni, ed è stato un attimo.

Mario se n’è andato, schivo come sempre e lontano dai riflettori, il 17 dicembre del 2011. Il 17, un numero che non gli è mai piaciuto: lo stesso che nel 1972 scintillava sulla Alpine di Andruet, destinata a una vittoria annunciata che si sarebbe trasformata in disfatta.

Sandro sta combattendo una battaglia ancora più dura del Montecarlo, contro una malattia che proprio come gli equipaggi delle Alpine non sa di cosa può essere capace un Drago. Vincerà anche questa volta, come sempre: primo Munari, dietro tutti gli altri.

Il Turini è sempre là, guardia silenziosa e immobile delle Alpi Marittime francesi, aspettando che nuovi equipaggi provino a conquistarne la cima volando sui tornanti coperti di ghiaccio e neve. Consapevole che potranno provarci mille, e mille, e ancora mille volte: ma che nessuno potrà mai ripetere la magica impresa del Drago, del Maestro e della loro piccola, vecchia e straordinaria Fulvia HF numero 14.

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