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Migranti, il rapporto dell’Oms: «È falso che portino malattie»

di Barbara Gobbi

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(ANSA)

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21 gennaio 2019
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3' di lettura

«Oltre 50mila persone hanno perso la vita da inizio degli anni Duemila nel Mar Mediterraneo. Donne, giovani uomini, adolescenti e minori non accompagnati diventano moderni schiavi, con gravi ripercussioni fisiche e mentali». Parole di fuoco, tanto più davanti alle ennesime tragedie del mare che anche in questi giorni riaccendono tristemente i riflettori sul “mare nostrum”, con il naufragio di 117 persone e con i cento migranti alla deriva, respinti verso Tripoli.

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Le parole di fuoco arrivano dall’Organizzazione mondiale per la sanità (Oms), il cui ufficio europeo ha presentato oggi a Ginevra il primo Report mai prodotto sulla salute dei rifugiati e dei migranti nella regione. Con un sottotitolo emblematico: «Non c'è salute pubblica se non c'è salute dei migranti». E con un dato su tutti: migranti e rifugiati corrono maggiore rischio di sviluppare malattie della popolazione che li ospita.

I dati. «Il primo elemento che salta agli occhi è che non c'è nessuna evidenza di trasmissione di malattie infettive dai migranti alla popolazione residente. Il secondo è che invece l’impatto con stili di vita del tutto differenti aumenta in chi arriva sia il rischio di malattie croniche cardiovascolari, di cancro e di obesità sia l’insorgere di ansia e depressione. Il terzo è che non siamo affatto davanti a un’orda in arrivo, ma piuttosto in presenza di un fenomeno strutturale demografico, da gestire. E dobbiamo gestirlo al meglio, anche dal punto di vista sanitario». Santino Severoni, responsabile per la Regione europea Oms del Programma di salute pubblica e immigrazione, manda inevitabilmente un messaggio politico: dei 920 milioni di persone che vivono nella Regione europea, si stima che circa il 10% siano migranti. Non un’orda quindi, ma una popolazione rispetto alla quale non ci si può voltare dall'altra parte.

Il Rapporto – sviluppato in collaborazione con l'Istituto nazionale per la salute, la migrazione e la povertà (Inmp) di Roma e basato su dati tratti da 13mila documenti, rileva che migranti e rifugiati corrono il rischio di ammalarsi mentre sono in transito o quando sono già arrivati nel Paese di approdo, a causa dei cambiamenti nelle condizioni di vita. E ribadisce che queste persone hanno pari diritti alla salute di qualunque altro essere umano, malgrado «nell’atmosfera febbrile che oggi caratterizza il continente i sistemi politici e sociali a fatica affrontino le sfide delle migrazioni in modo umano e positivo».

Le strategie. Quali raccomandazioni dare ai Paesi europei? La parola-chiave che sottende il Report è integrazione. Che dovrebbe passare per due canali prioritari: la prevenzione, a cominciare dai vaccini per i quali resta la raccomandazione di una soglia di copertura al 95%, e la massima inclusione delle persone che arrivano nei servizi di assistenza già esistenti, a partire dalle cure primarie. «Troppo spesso – afferma Severoni – la gestione della prima fase è meramente amministrativa e questo determina un'esclusione dall'accesso alla sanità del Paese. L'Italia è stata una best practice: quando nel 2016 ha ricevuto circa mezzo milione di persone, ha messo in piedi in Sicilia un modello che prevede un doppio livello di screening, sia sulle navi che all'arrivo a terra con eventuale invio a strutture specializzate, se necessario. Questo per dire che lo screening, non imposto ma nel rispetto della persona, è comunque una delle vie da praticare».

Poi però, dopo lo sbarco, c'è la vita quotidiana. E qui la raccomandazione che arriva dall'Oms è di potenziare i servizi sanitari, ma anche sociali, già esistenti. Ma servono medici, infermieri, mediatori culturali e in generale personale formato ad hoc, così come va garantito a migranti e rifugiati l'accesso ai farmaci essenziali.

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La detenzione nuoce gravemente alla salute. Troppo spesso le strategie già messe in campo dai vari Stati rispondono più a esigenze di sicurezza che di tutela della salute. Tra queste, l’inserimento degli stranieri in piani anti-pandemia e le limitazioni alla mobilità per esigenze di riduzione del rischio. Per non parlare della detenzione: «Secondo le linee guida internazionali – spiega ancora Severoni – il ricorso a centri di detenzione di migranti dovrebbe essere l’ultima spiaggia. Eppure, e malgrado esistano valide alternative, è ampiamente praticato in tutta la Regione. Abbiamo evidenze certe, da anni, che la detenzione produce effetti negativi, a tutto tondo, in termini di esposizione delle persone che la subiscono sia a malattie infettive che a problemi di salute mentale. Nel frattempo le norme internazionali europee e il controllo delle frontiere istigano a una proliferazione incredibile di questi centri. Tutti i Paesi e anche l'Italia, che con la legge Basaglia è stata un modello nel proporre forme alternative alla contenzione in ambiti sensibili come la salute mentale, dovrebbero cambiare rotta. Ne va della salute dei migranti e in prospettiva delle società che li accolgono».

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