di Patrizia Maciocchi
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Scatta il reato di uccellagione per chi preleva, con mezzi diversi da armi da sparo, uova, nidi o piccoli nati. Una condotta che ha una potenzialità offensiva indeterminata e comporta una maggiore sofferenza per gli animali. La Corte di Cassazione, in assenza di una definizione chiara, fornisce un’interpretazione restrittiva della norma che vieta di catturare gli uccelli vivi (legge 157/1992), per tutelare i volatili fin dallo stato “embrionale”. La Suprema corte respinge così il ricorso contro la condanna per uccellagione, inflitta all’imputato, classe 1983, che aveva prelevato, con le mani, e detenuto 320 esemplari di uccellini selvatici appena nati e senza anello identificati.
Azione che, ad avviso del ricorrente, non poteva ricadere nel reato di uccellagione secondo quanto previsto dalla legge. I giudici di legittimità in assenza di una specifica definizione normativa del concetto di uccellagione ne forniscono un’interpretazione estensiva e includono nel concetto di uccellagione anche il “prelievo” - nozione diversa dalla ricerca e dalla cattura - di uova, nidi e piccoli nati «ovvero di categorie diverse dagli uccelli adulti». La Cassazione sottolinea, infatti, che va considerata uccellagione e non caccia «qualsiasi atto diretto alla cattura di uccelli con mezzi diversi da armi da sparo (reti, panie ecc..). Un’interpretazione della nozione di uccellagione non inclusiva di uova, nidi e piccoli nati «priverebbe di sanzione, senza alcuna logica - si legge nella sentenza - una condotta che, se posta in essere con potenzialità offensiva indeterminata, impedirebbe alla specie di arrivare all’età adulta, cagionando una ben più grave offesa alla fauna selvatica rispetto a qualsivoglia attività prodromica alla cattura». Centrale nella decisione anche l’elemento della maggiore sofferenza per gli animali.
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