di Sergio Fabbrini
(Ansa)
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Lo scenario del Consiglio europeo di giovedì e venerdì scorsi è un po’ la metafora dell’Unione europea (Ue), quando il suo baricentro decisionale è nei governi nazionali. Quel Consiglio si è tenuto tra gli specchi di Versailles, mentre l’aggressione russa dell’Ucraina stava provocando la morte e la sofferenza di milioni di persone. Il Consiglio europeo sembrava un monarca collettivo che fatica a rincorrere gli avvenimenti al suo esterno. Ma anche l’esito della riunione è risultato insufficiente. È vero che i governi nazionali hanno preso decisioni importanti, ma si è trattato di decisioni a metà, per via delle divisioni che si sono aperte tra di loro. Dopo tutto, come possono 27 capi di governi nazionali, che esprimono interessi diversi, prendere decisioni tempestive e coerenti, per di più rispettando il principio di unanimità? Improbabile.
Tre esempi.
Primo. Il Consiglio europeo ha rafforzato le sanzioni economiche contro la Russia, ha “autorizzato” la Commissione a utilizzare altri 500 milioni per aiuti militari all'Ucraina, ha impegnato gli stati membri «ad affrancarsi, quanto prima, dalle importazioni di gas, petrolio e carbone russi» (informalmente, entro il 2027), riducendo altresì la nostra dipendenza strategica nelle materie prime critiche, nei semiconduttori, nella salute, nel digitale e nei prodotti alimentari. Pur ribadendo il suo impegno a perseguire una «politica commerciale ambiziosa e solida, in un contesto multilaterale e attraverso accordi commerciali», il Consiglio europeo propone di restringere la globalizzazione, accrescendo l’interdipendenza all’interno dell’Ue, ma riducendo quella al suo esterno. Tutto bene. Però, tale riposizionamento strategico è destinato ad avere conseguenze asimmetriche sugli stati membri. Le sanzioni penalizzano in modo diseguale questi ultimi, l’autonomia energetica dalle forniture russe è più facilmente acquisibile da alcuni paesi (la Francia nucleare) che da altri (l’Italia e la Germania del gas). Come farsi carico dei costi di aggiustamento, con bilanci nazionali già sovracaricati dalle spese per contrastare la pandemia? Ci vorrebbe un bilancio europeo ad hoc, con risorse acquisite sul mercato finanziario dalla Commissione, come sperimentato con Next Generation EU. Ma i Paesi frugali hanno cominciato subito ad abbaiare. Conseguenza, il Consiglio europeo non si esprime.
Secondo. Il Consiglio europeo è inequivoco nel riconoscere che la Russia ha riportato la guerra in Europa», violando «palesemente il diritto internazionale e i principi della Carta delle Nazioni Unite» e compromettendo «la sicurezza e la stabilità mondiali ed europee», oltre a causare «sofferenze indicibili alla popolazione ucraina». Chiede perentoriamente che «la Russia cessi le sue azioni militari e ritiri tutte le forze e le attrezzature militari dall’intero territorio dell’Ucraina». Per sostenere queste richieste, il Consiglio europeo propone di aumentare e migliorare gli investimenti nelle capacità di difesa, di stimolare gli investimenti collaborativi tra gli stati membri, di sviluppare sistemi di cyber-security e connettività spaziale, di migliorare la mobilità militare in tutta l’Ue. Tutto bene, ma come possono, quelle richieste, risultare credibili, se non sono accompagnate (soprattutto) da un impegno preciso a costruire una capacità militare autonoma dell’Ue? Certamente è necessario avviare una politica industriale comune nella difesa, superando le rivalità tra i vari progetti bi- o multinazionali, ma ciò richiederà anni. Nel frattempo, chi ferma «i cosacchi che sono alle nostre porte»? Per fortuna c’è la Nato, ma le incertezze della politica Usa imporrebbero di rafforzarne il pilastro europeo. Ma per rafforzare quest’ultimo, la logica intergovernativa non funziona. Basti pensare alla Cooperazione strutturata permanente nel campo della difesa (Pesco, avviata nel 2017), che, nonostante si basi sulla partecipazione volontaria di chi ne sottoscrive gli obiettivi (25 dei 27 stati membri), non è riuscita ancora a definire una strategia comune per via delle divergenze tra quegli stati. Tant’è che la Francia ha avviato, nel 2018, l’Iniziativa europea di intervento, costituita oggi da 13 Paesi (l’Italia vi ha aderito nel 2019), ma anche questa Iniziativa intergovernativa è continuamente sottoposta alle diffidenze tra i Paesi che ne fanno parte. Anche a Versailles, sono emerse divisioni tra i governi nazionali sia sulla necessità di creare una difesa europea che sulle risorse per finanziarla. Conseguenza, il Consiglio europeo non si esprime.
Terzo. Il Consiglio, a fronte della richiesta del governo ucraino di beneficiare di una procedura accelerata per entrare nell’Ue, riconosce «le aspirazioni europee e la scelta europea dell’Ucraina, come indicato nell’accordo di associazione» (siglato nel 2014 ed entrato in vigore nel 2017). Tuttavia, rinvia la decisione. Non poteva essere diversamente, viste le divisioni tra i governi nazionali. Alcuni dei quali (dell’Europa dell’est) favorevoli all’allargamento dell’Ue all’Ucraina, Moldova e Georgia, ma anche ai Paesi balcanici, mentre altri governi (dell’Europa dell’ovest, con la Germania oscillante) assai meno favorevoli. Divisione inevitabile, dovendo scegliere tra due alternative secche, integrazione o esclusione. Conseguenza, il Consiglio europeo non si esprime.
Insomma, gli specchi di Versailles hanno riflettuto un Consiglio europeo determinato a reagire alla sfida russa, ma indeterminato nel precisare i termini della sua risposta. L’Ue non può rispondere con coerenza alle sfide se continua ad affidarsi a un Luigi XIV (seppure collegiale).
Sergio Fabbrini
editorialista
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