di Caterinha Orsenigo
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“What if” ... E se… uno Shtetl di duemila abitanti, protetto dalle foreste fitte della Polonia Orientale, avesse perso nei secoli scorsi ogni contatto col mondo esterno e fosse arrivato fino a oggi indenne, risparmiato dalla Storia?
Lo scrittore newyorchese Max Gross prova a immaginare questo piccolo villaggio di nome Kreskol che nel corso dell'800 si è fatto sempre più isolato e autarchico: le amministrazioni statali e rabbiniche si sono scordate della sua esistenza, il suo nome è stato cancellato dalle mappe.
E intanto l'esistenza, a Kreskol, è proseguita pacifica, lontana da guerre e innovazioni. Finché una notte una ragazza, Pesha, lascia il villaggio per fuggire da un matrimonio sbagliato e il giovane Yenkel viene caricato su una carovana di zingari e mandato a cercarla. È così che il velo si squarcia, il mondo viene a sapere di Kreskol e Kreskol viene a sapere del mondo: le macchine, i cellulari, il caffè.
L'Olocausto. Certo l'autore voleva parlare soprattutto di questo: immaginare come una comunità di ebrei si potesse essere salvata dallo sterminio dell'Europa orientale, raccontarlo col tono di un racconto yiddish, scoprire così come questi reagiranno alla tardiva notizia, come si misureranno con l'enormità della tragedia e apprenderanno la nascita di Israele.Eppure c'è molto altro.
La scoperta di Kreskol trascina il villaggio nella modernità: la Posta, le strade, l'elettricità, la nuova moneta, le comodità, l'inflazione, i turisti. Le divisioni interne, odi e tensioni, gli arricchimenti improvvisi, volere di più, restar senza niente. Yenkel e Pesha sono gli unici ad avventurarsi nel nuovo mondo. Sono entrambi abbastanza giovani da saper cambiare idee e abitudini e tornare indietro non sarà mai una possibilità: per quanto l'esistenza là fuori possa essere brutale e solinga, le vertigini di una realtà infinitamente più vasta e l'entusiasmo di confrontarsi con la Vita e varcare confini hanno la meglio.Individualmente, dunque, la modernità vince.
Ma Kreskol, con la sua economia, la sua semplicità, i suoi abitanti, presa e poi abbandonata dallo Stato e dai media, resta sventrata: divisa, impoverita, incapace di tornare a sostentarsi con le proprie forze. Difficile non pensare, allora, a tutti i casi in cui la modernità è stata imposta dall'alto (o da Occidente).
Tornano in mente le parole di A. Schwarzenbach sul suo viaggio fra Iran e Afghanistan nel '39: “I contadini che vivevano, in sonnacchiosa povertà, del solo raccolto delle risaie sono stati costretti a lavorare nelle fabbriche (…) In Iran i nomadi, nell'ambito di un programma di sviluppo, erano stati costretti alla sedentarietà”. Così quella di Kreskol appare come parabola condivisa, con infinite modalità e sfumature diverse, da moltissime altre realtà in quest'ultimo secolo.
Max Gross, Lo Shtetl perduto, traduzione di Silvia Montis, Edizioni e/o, p. 448, 19 Euro
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