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I rischi della cancel culture

di Vittorio Lingiardi e Guido Giovanardi

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22 giugno 2021
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4' di lettura

Accade sempre più spesso che ogni tema di discussione pubblica – che riguardi la salute (sì o no al coprifuoco, al vaccino, eccetera) o l'identità e i diritti dei cittadini (da cui per esempio la polemica sull'esistenza dell'identità di genere e la sua nominabilità in un testo di legge) – diventi terreno di scontro tra due aggregazioni contrapposte e fortemente polarizzate.

Sempre meno spazio per confronti costruttivi

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Sembra ci sia sempre meno spazio per confronti magari movimentati ma costruttivi. Il punto è che in pochi hanno voglia di ragionare attorno alla loro idea. A esacerbare il contrasto contribuiscono le caratteristiche del teatro in cui si svolge la maggior parte delle nostre discussioni (e delle nostre vite): le piattaforme online. Ogni comunicazione è esposta a critiche rapide, feroci, brevi nella forma e poco articolate nel contenuto. La vulnerabilità legata all'esposizione delle proprie idee, il rischio pervasivo di aggressione verbale, oltre alla velenosa proliferazione delle fake news, organo principale di quello che la saggista Shoshana Zuboff ha definito il “capitalismo della sorveglianza”, ha spinto parte della comunità accademica ad abbracciare quella polarizzazione reattiva che è stata (anche qui frettolosamente) chiamata cancel culture.

Una delle sue prime formalizzazioni concettuali risale a una lettera pubblicata nel luglio 2020 su Harper's Magazine: 150 intellettuali (tra cui Margaret Atwood, Salman Rushdie, Noam Chomsky) preoccupati per la tendenza a “cancellare” opere e opinioni, passate e presenti, considerate politicamente scorrette, moralmente o intellettualmente inaccettabili, “solo” perché esprimono valori contrari ai diritti delle minoranze, alla parità di genere, all'uguaglianza, al rispetto reciproco. Secondo gli autori della lettera la cancel culture costituirebbe una rinuncia al dialogo con la memoria che spesso è scomoda, una incapacità di comprendere i contesti e, nonostante tutto, una limitazione della libertà di espressione.

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Negli ultimi tempi abbiamo assistito al licenziamento in tronco di Kevin Spacey e alla messa al bando della biografia di Woody Allen, compreso il boicottaggio americano dei suoi film; anche la divulgazione di alcune opere del passato e la memoria delle vite di alcuni autori o personaggi storici macchiati da varie colpe sono state messe in discussione (vedi anche: «La rimozione delle statue»).

Autocrazia

In un articolo sul Corriere della Sera, Albena Azmanova, politologa bulgara che insegna negli Stati Uniti, ha espresso una forte preoccupazione per il clima che si respira nei campus universitari inglesi e statunitensi, dove la libertà di espressione è stata sostituita dalla “espressione sicura che apre la porta all'autocrazia”: secondo Azmanova la cancel culture prevede inevitabilmente un organismo giudicante cui la società conferisce un potere discrezionale, che determina cosa sia sicuro esprimere, e induce quindi una censura e un'auto-censura lesive della libertà individuale.

Altre voci, per esempio quella della giornalista Jennifer Guerra , dissentono. La nuova attenzione rivolta ai diritti delle minoranze, secondo quest'altra prospettiva, non sarebbe da ascrivere a una politically correctness dilagante e corrosiva; piuttosto, sarebbe il risultato di un ampliamento di orizzonti della sfera politica. Ampliamento che, in ambito accademico, è stato raggiunto grazie agli studi post-coloniali: non riconoscerlo sarebbe come, per fare un esempio, ridurre l'articolata sensibilità dei gender studies alla semplificazione strumentale della cosiddetta (fantomatica) “ideologia gender”.

A noi sembra che la questione sia troppo complessa per sposare una posizione univoca: gran parte della sofferenza psichica delle minoranze deriva proprio dall'essere esclusi dal dialogo politico, non riconosciuti come validi interlocutori e attivi partecipanti alla vita civile; tutelarne i diritti è sacrosanto (vedi anche alla voce ddl Zan). Allo stesso tempo, alcune condotte censorie hanno un sapore fanatico, rinunciano alla prospettiva storica e alimentano polarizzazioni che penalizzano il dialogo.

Più di dieci anni fa la filosofa Martha Nussbaum (Internazionale ha recentemente riproposto questo suo contributo) aveva lanciato un allarme che a nostro avviso può funzionare bipartisan (cioè sia per i cancellatori e le cancellatrici di opere classiche sconvenientemente misogine, sia per gli orrendi insultatori di donne o minoranze). In un mondo in cui il benessere sociale dipendeva sempre più dalla diffusione delle conoscenze, scriveva Nussbaum, gli studi umanistici e l'insegnamento socratico, basato su dialogo aperto e pensiero autonomo, venivano via via soppiantati da un modello educativo iper-specializzato (sempre più carente in cultura generale): «Per capire bene la complessità del mondo non si possono usare solo la logica e le conoscenze fattuali. Le persone hanno bisogno di un terzo elemento, strettamente correlato ai primi due, che possiamo chiamare immaginazione narrativa. È la capacità di pensarsi nei panni di un altro, di essere un lettore intelligente della storia di quella persona, di comprenderne le emozioni, le voglie e i desideri».

In questa rubrica l'abbiamo affermato spesso, uno degli elementi più importanti del dialogo clinico è proprio la creazione di una dimensione del “noi”, il “terzo analitico”, che nasce dall'incontro di due soggettività, l'apertura di un campo in cui i conflitti e le parti più “scomode” delle personalità vengono conosciute, approfondite, elaborate e, quando serve, contrastate.

Dall'individuale al collettivo, anche nel dialogo pubblico, la rimozione del confronto può essere molto nociva. Detto questo, è evidente che non si può dire tutto o dialogare con chiunque. Soprattutto con qualcuno le cui parole aumentano la sofferenza di minoranze o categorie già traumatizzate. Su questo, a nostro avviso, si può essere kantiani e sostenere, come un imperativo categorico, la legittimità delle battaglie contro l'incitazione al razzismo, alla misoginia, all'omofobia, alla transfobia. Ma ciò non significa che l'arte debba rinunciare alla sperimentazione, alla provocazione, al rischio. Né significa che il passato, con le sue contraddizioni e i suoi orrori, vada candeggiato o rimosso e non studiato. Contro le fake news, abbiamo sempre più bisogno di vere testimonianze e di più voci possibili. Comprese interpretazioni narrative creative, sperimentali o contestualizzanti, che ci permettano di leggere la realtà da più punti di vista. Una cosa è chiudere il blog dell'hater razzista, che sia un politico o un comune cittadino, altra cosa è non poter leggere Celine, Nabokov o Allen.

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