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Domenico Gnoli, ovvero l’arte nel dettaglio

di Eugenio Giannetta

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Veduta della mostra “Domenico Gnoli”. Fondazione Prada, Milano. Foto / Photo: Roberto Marossi. Courtesy: Fondazione Prada. Da sinistra a destra: Braid, 1969. Curly Red Hair, 1969. Curl, 1969

Veduta della mostra “Domenico Gnoli”. Fondazione Prada, Milano. Foto / Photo: Roberto Marossi. Courtesy: Fondazione Prada. Da sinistra a destra: Braid, 1969. Curly Red Hair, 1969. Curl, 1969

Alla Fondazione Prada la retrospettiva dedicata all'artista scomparso nel 1970

23 febbraio 2022
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2' di lettura

C'è una splendida fotografia di Federico Patellani in cui una donna di spalle, sdraiata, guarda la carcassa di un aereo, con una caviglia lievemente inclinata sull'altra. È una foto di dettagli. Non si vede il volto di lei, e ciò alimenta il mistero,il desiderio, la curiosità e la spinta a guardare ancora e ancora. L’effetto è simile a quello di entrare nelle opere di Domenico Gnoli, dove i dettagli ingranditi divengono parte di un insieme più grande, ma sepolto, nascosto, solo immaginato, come il consistente - ma non visibile - di un iceberg. Nella retrospettiva concepita da Germano Celant, critico, curatore e direttore artistico di Fondazione Prada che, scomparso ad aprile 2020, non ha potuto vedere il risultato finale dell'esposizione, sono state riunite più di 100 opere realizzate da Gnoli tra il 1949 e il 1969, con il piano superiore della mostra dedicato alla sua attività di scenografo e illustratore.

A più di 50 anni dalla scomparsa di Gnoli

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Il risultato, a più di 50 anni dalla scomparsa di Gnoli (New York, 1970), è di assoluta contemporaneità nella rappresentazione dell'immagine, perché in questa mostra le opere di Gnoli raccontano un ambiente, un contesto, uno status, stringendo l'obiettivo su una carrellata di particolari a distanza ravvicinata.

Il quotidiano e il contesto

Quella distanza ravvicinata fu spiegata a suo tempo dallo stesso Gnoli con l'uso di «elementi dati e semplici», presi singolarmente a narrazione di una moltitudine, senza «aggiungere o sottrarre nulla», quasi come in poesia. Gnoli disse di sé che il suo lavoro isolava e rappresentava, guardando all'attualità e a «situazioni familiari della vita quotidiana». E così, l'ingrandimento di bottoni, cravatte, le ombre dentro le tasche di pantaloni, le cerniere mezze aperte, il pezzo di orologio che spunta dalla camicia perfettamente bianca e impeccabilmente stirata, sono presenze che raccontano una storia, senza necessità di fare di più, senza urgenza di allargare ancora lo sguardo. E anzi, paradossalmente, restringendo la visione sulle superfici, dentro onde di capelli, curve di corpi, sagome di forme umane mai del tutto palesate.

Una pratica artistica libera da etichette

La retrospettiva si inserisce in una serie di mostre che Fondazione Prada ha dedicato nel tempo a figure come Edward Kienholz, Leon Golub e William Copley, difficilmente assimilabili alle principali correnti artistiche della seconda metà del Novecento. L'obiettivo dell'esposizione è provare a esplorare le pratiche artistiche libere da etichette, nonostante la tradizione della pittura italiana e artisti come Bacon, Magritte abbiano influenzato il lavoro di Gnoli. Tuttavia, c'è dell'altro: l'uso del colore, le assenze che si fanno presenze nelle pieghe di lenzuola sfatte o poltrone ombreggiate dall'orma di una seduta appena lasciata, la bidimensionalità che talvolta acquisisce profondità, l'importanza della materia nell'utilizzo di tecniche come la sabbia su tela, connotano una certa attenzione per le piccole cose, apparentemente le meno importanti, a completamento di una realtà che si può leggere o rileggere con diverso valore.

Domenico Gnoli, Fondazione Prada, Milano, Largo Isarco 2, 20139, Milano, a cura di Germano Celant


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