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Le sorelle del Barolo e la diversità delle Langhe, patrimonio da salvare

di Paolo Bricco

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Dinastie. Le due sorelle Rinaldi: Marta sta più in cantina. Carlotta più in vigna. Le scelte strategiche sono compiute da entrambe. Marta alle superiori ha frequentato la scuola enologica di Alba, Carlotta il liceo scientifico. Entrambe sono laureate in scienze agrarie all'università di Torino.

Dinastie. Le due sorelle Rinaldi: Marta sta più in cantina. Carlotta più in vigna. Le scelte strategiche sono compiute da entrambe. Marta alle superiori ha frequentato la scuola enologica di Alba, Carlotta il liceo scientifico. Entrambe sono laureate in scienze agrarie all'università di Torino.

In una casa piena di luce, con l'allegria di un cane e di una neonata, le signore del vino riflettono su famiglia, imprenditoria e speculazione (che non paga mai)

13 novembre 2022
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7' di lettura

La loro casa è sulla collina, sul punto più alto del piccolo paese di Barolo. Le sorelle Rinaldi, Marta e Carlotta, sono le eredi degli uomini del vino che hanno portato l’agiatezza nelle terre della Malora di Beppe Fenoglio, in cui la differenza fra chi stava a servire in queste cascine e chi viveva nella città era profonda, dolorosa, quasi vergognosa: «C’era una cosa che non mi riusciva di fare, ed era guardare in faccia i ragazzi d’Alba che all’occhio mi sembravano della mia età; li vedevo avvicinarsi ma nell’incrociarli era più forte di me, dovevo chinare gli occhi, per poi voltarmi e guardarli una volta passati», scriveva Fenoglio.

In assenza di eredi maschi, per secoli non c’è stata mai nessuna discussione: la casa vinicola si metteva in vendita. Marta è del 1985. Carlotta del 1988. «Quando nostro padre Beppe si è spento nel 2018 a 69 anni per una malattia, è toccato a noi. Nostra madre Annalisa era venuta qui, in Langa, da Cuneo nel 1984. L’anno dopo il matrimonio nacqui io. Mio nonno Giovan Battista, quando scoprì che ero femmina, rimise nel cassetto un anello di famiglia che avrebbe regalato a mia mamma se io fossi stata un maschio. Quattro anni dopo, alla nascita di mia sorella Carlotta, mio nonno glielo diede dicendole: “Mi sa tanto che va così…”», racconta Marta come si raccontano con partecipato distacco le saghe famigliari, che sono sempre felici e tristi, malinconiche e divertenti, lontane e vicine. La loro cagna si chiama Vida. Razza Weimaraner. È da caccia, più che da tartufi. Di sicuro è da feste riservate a chiunque arrivi con buone intenzioni e con il desiderio di farle le coccole. Nella sala da pranzo della famiglia Rinaldi, Vida continua a osservare con occhi protettivi Luce, la bellissima figlia di Marta, che non ha ancora compiuto un anno. Luce – bionda, sorridente, assisa sul suo seggiolone come una regina buona – cerca ammiccando divertita gli sguardi di chi è a tavola con lei. Sulla tavola sono disposti pollo e patate, peperoni e formaggi. E una bottiglia di Langhe Nebbiolo. «Nostro padre Beppe diceva sempre di essere circondato dalle femmine», ironizza Carlotta. Il padre Beppe – Giuseppe – e, ancora prima di lui, il nonno Giovan Battista sono i Rinaldi. La prima bottiglia della “Giuseppe Rinaldi” è del 1921. I Rinaldi – con i Mascarello, gli Oddero, i Colla, i Borgogno, i Burlotto, gli Einaudi, i Cappellano, i Vietti, i Cavallotto e i Giacosa – hanno creato la cultura, prima che il mercato, del barolo.

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La sala da pranzo – con il suo arredamento e i suoi quadri, i suoi fiori e le sue piante – sembra fuori dal tempo. Potrebbe essere degli anni Cinquanta, degli anni Sessanta, degli anni Settanta o degli anni Ottanta. La casa di campagna nelle Langhe è rimasta intatta. Il giardino è ben curato. La Fulvia e la Lambretta sono nel garage con il portone aperto. La cantina è inserita dentro alla casa. La costa della collina rivolta a sud ospita i filari di nebbiolo per il barolo. A nord, nella parte rivolta verso il paese, si trovano quelli per un altro tipo di vino, la freisa.

La casa non ha alcuna forma di cupezza o di severità. Saranno le pernacchiette e le risatine di Luce. Sarà la luce che entra dalle finestre inondando la cucina con questo autunno caldo e inusuale che qui nelle Langhe rende ubriacanti i colori e stordenti i profumi. Sarà l’assenza della componente maschile, che nella declinazione di questo lembo del Nord Italia è sempre stata molto scura e silenziosa: «Nostro nonno Giovan Battista aveva combattuto, nella Seconda guerra mondiale, nell’artiglieria alpina. È stato sindaco di Barolo. Andando casa per casa e azienda per azienda ha organizzato nel 1970 la sottoscrizione pubblica con cui comprare il castello, ristrutturarlo e farne poi l’Enoteca regionale del barolo. Era un uomo duro. Nostro padre Giuseppe, che portava il nome del trisavolo fondatore della casa vinicola, era veterinario. Curava ogni genere di animale: dal gufo con l’ala rotta alla volpe investita dal trattore, dall’airone caduto in volo al cane da tartufo avvelenato da un vicino di casa per eliminare un concorrente nella stagione della ricerca nei boschi. La sua sala operatoria era il tavolo nell’ingresso di casa. Era specializzato nella selezione e nell’inseminazione delle vacche della razza piemontese. Alla morte di nostro nonno, nel 1992, gli toccò guidare l’azienda. Nostro padre era carismatico e brillante. La casa era sempre piena di amici. Lui era appassionato di arte e di letteratura. Era un grande narratore. Ma, in qualunque stanza si trovasse, occupava ogni angolo e ogni spazio. Non era una persona facile. Era abbonato alle riviste dell’anarchia italiana. Nostra madre Annalisa era molto simpatica e divertente. Era comunista. Era una insegnante. Ed era l’unica, in famiglia, a parlare le lingue. Per questo trattava lei con i clienti stranieri. Azienda, casa e famiglia erano un tutt’uno. Non c’erano mai mattine, pomeriggi e sere. Alla morte di mio padre, abbiamo preso in mano la casa vinicola noi due e la mamma, che è mancata questa estate». Mentre iniziamo a mangiare il pollo dentro alla casseruola, questo racconto viene fatto un pezzo alla volta da Marta e da Carlotta, le cui voci si fondono mantenendo però ognuna la sua identità.

Marta sta più in cantina. Carlotta più in vigna. Le scelte strategiche sono compiute da entrambe. Capita sempre più spesso in questo settore: nel vino le donne hanno preso spazi e visibilità, potere e responsabilità sempre maggiori e a tratti prevalenti sugli uomini. La maggiore decisione delle sorelle Rinaldi è stata affittare, nel 2019, un vigneto di Bussia Sottana, nel comune di Monforte d’Alba: «Nostra madre ci consigliò molto bene. Ci spinse a prenderlo per aumentare la produzione. E negoziò il contratto con fermezza e astuzia», dice con affetto e ammirazione Carlotta. Così, le bottiglie all’anno sono salite dalle 40mila del padre alle 50mila delle figlie. Marta alle superiori ha frequentato la scuola enologica di Alba («nella mia classe eravamo due ragazze e ventun ragazzi»), Carlotta il liceo scientifico, sempre ad Alba. Entrambe, poi, si sono laureate in scienze agrarie all’Università di Torino. Marta ha avuto, fin da bambina, una piena identificazione con la casa vinicola. La vocazione di Carlotta è stata più tardiva.

La cagnona Vida si alza da sotto il seggiolone di Luce e inizia a girare intorno al tavolo alla ricerca di carezze e di affettuosità che riceve da tutti. Il pollo al forno è buonissimo. Come sono buonissime le patate al forno. In tavola, beviamo ancora un bicchiere di nebbiolo. Le loro bottiglie – come quelle degli altri grandi produttori di nebbiolo e di barolo – raggiungono prezzi elevati sul mercato secondario animato da trader e da collezionisti, oltre che dagli operatori del settore. Spiega Marta: «Noi siamo molto concentrate sulla qualità del prodotto. Il numero di bottiglie è quello: 50mila all’anno. La lista dei clienti è quella. Ed è per lo più composta da acquirenti che, nei decenni, sono anche diventati amici. Potremmo alzare i prezzi. E la maggioranza accetterebbe senza problemi. Ma non lo facciamo. Per noi il vino è il risultato di un lavoro che, dopo due ore dalla apertura della bottiglia, è scomparso. Non speculiamo sui listini. Ci stupisce vedere i prezzi che le nostre bottiglie arrivano ad avere nei grandi ristoranti internazionali, ma anche nelle enoteche locali. E ci dispiace quando le troviamo sui siti, messe in vendita da privati che le hanno comprate da noi». Mentre mi aggiunge nel piatto altro pollo al forno e altre patate, chiarisce Carlotta: «Potremmo tracciare le nostre bottiglie. Ma non lo facciamo. Anche perché sarebbe un dispiacere scoprire quali dei nostri clienti comprano da noi a un certo prezzo le bottiglie e poi le rivendono a prezzi assurdamente più alti».

Questa attività è piena di significati, dignitosa e mai ostentata, e ha generato una identità basata sulle vigne e sul lavoro, sulle cantine e su un silenzioso riserbo verso tutto che diventa uno stile di vita. Le Langhe, negli ultimi anni, sono però diventate di moda. In tanti si stanno accorgendo che il turismo di massa non funziona più. «Non ha senso – riflette Marta – riempire i nostri minuscoli paesi di parcheggi. Dobbiamo conservare le piccole produzioni nel vino, la cura del paesaggio delle nostre colline e la biodiversità. La speculazione da noi non funziona. Non funziona sul turismo. Non funziona sulla terra. È vero che, anche qui, gli ettari di vigna di pregio costano cari, fra i due milioni e i tre milioni di euro l’uno. Ma nulla a che vedere con la Borgogna dove, a causa delle tasse di successione che in Francia sono molto onerose, nelle case vinicole sono arrivati i fondi di investimento internazionali che hanno fatto esplodere le quotazioni dei filari».

La cagnona Vida si accuccia sotto al tavolo fra le gambe di tutti. La piccola Luce va a fare una passeggiata. Il caffè con la moka è pronto, insieme alle paste di meliga e ad altri biscotti secchi. Da fuori filtra, attraverso le porte finestre, il chiarore del pomeriggio. E, mentre le sorelle del barolo elencano le piante custodite nei loro boschi («faggi, tigli, querce» dice Carlotta, «acacie, castagni e noccioli» aggiunge Marta), mi viene in mente quanto siano vere – per chi va e per chi come loro è rimasto a Barolo o in ogni altro luogo della nostra Italia – le parole di Cesare Pavese in La luna e i falò: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».

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