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La sfida titanica (ma necessaria) di riaprire miniere in Europa

di Sissi Bellomo

Magnesio, litio, cobalto: ecco perché la Ue vuole riaprire le miniere

Per una serie di materiali green siamo troppo dipendenti dall’estero, ma per sviluppare l’autoproduzione - come vorrebbe la Commissione Ue - dovremo superare ostacoli enormi: dalla sindrome Nimby al caro energia

14 marzo 2023
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4' di lettura

Litio, cobalto, silicio. Ma anche titanio o magnesio. La Commissione europea prende in mano la situazione per prevenire carenze o eccessivi rincari dei materiali definiti “critici”: quasi tutti metalli, che ci sono indispensabili per la transizione energetica o in settori strategici come la difesa e che sono a rischio, perché i consumi sono destinati a crescere in fretta - in qualche caso addirittura a ritmi esponenziali - e perché per rifornirci dipendiamo in modo eccessivo se non addirittura totale da un numero ristretto fornitori.

Tra questi molto spesso c’è la Cina, con situazioni estreme come nel mercato delle terre rare, in cui tuttora Pechino controlla circa il 60% della produzione mineraria e oltre l’80% della raffinazione globale. Attenuare un rischio del genere non sarà facile. E la linea scelta da Bruxelles promette di far discutere.

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Caccia ai metalli green

Stando alle anticipazioni lo sviluppo di nuove miniere e impianti metallurgici in territorio europeo è uno dei cardini del Critical Raw Material Act (Crma), parte di un più ampio pacchetto di proposte che l’esecutivo Ue presenterà il 14 marzo. I dettagli possono cambiare fino all’ultimo momento, ma la bozza circolata in questi giorni indica obiettivi tanto ambiziosi da sembrare impossibili da raggiungere.

Entro il 2030 l’Unione europea dovrebbe riuscire ad estrarre dal proprio sottosuolo almeno il 10% dei materiali critici consumati e rendersi autonoma per almeno il 40% nella raffinazione o altre lavorazioni intermedie. Una sfida davvero titanica considerata la crescente opposizione con cui si scontra (non solo in Italia) qualsiasi progetto con un impatto sul territorio. E le miniere - anche quelle più sicure e sostenibili, come ambisce ad averle la Ue - un impatto sul territorio e sull’ambiente inevitabilmente ce l’hanno. Di solito anche piuttosto aggressivo.

Progetti minerari nel mirino

La sindrome Nimby (Not in my backyard, ovvero “non nel cortile di casa mia”) non colpisce solo quando si tratta di realizzare gasdotti o treni ad alta velocità. E tra i progetti minerari per la transizione verde ci sono già state vittime eccellenti: l’ultima a gennaio, quando il governo serbo dopo infinite azioni di protesta ha revocato le licenze per lo sviluppo di un maxi deposito di litio scoperto nel 2004 nella valle del fiume Jadar. L’investimento, da 2,4 miliardi di dollari, era in mano al gigante australiano Rio Tinto.

Per motivi analoghi rischia di fermarsi (o di essere rallentato) anche un altro progetto nel litio, ancora più rilevante di quello serbo: la miniera a cielo aperto di Covas do Barroso, in Portogallo, che la britannica Savannah Resources vorrebbe inaugurare nel 2026, contro cui si è scatenato un movimento simile ai no-Tap e ai no-Tav nostrani.

Ostilità diffusa per i nuovi impianti

Altrove qualche operazione procede con minori intoppi: ad esempio in Germania, nell’Alta Valle del Reno, dove Vulcan Energy (che collabora anche con Stellantis) ha un impianto pilota per produrre litio a zero emissioni con la geotermia. Ma è una rara eccezione. Molti progetti per ora esistono solo sulla carta e anche così spesso sollevano ostilità.

In Svezia - patria di Greta Thunberg, che di recente è stata fermata dalla polizia in Norvegia mentre protestava contro parchi eolici - gli ambientalisti si stanno già mobilitando contro la scoperta del maxi deposito di terre rare annunciata il mese scorso, in un’area che peraltro è sottoposta a sfruttamento minerario praticamente da sempre.

Forse non è un caso se in Europa sono almeno 15 anni che non si apre una nuova miniera. Le chiusure invece non si contano negli ultimi decenni (e non riguardano soltanto siti carboniferi).

Eppure le risorse da estrarre, quanto meno di alcuni materiali strategici, non mancherebbero. Anche in Italia sono stati individuati siti interessanti, di alcuni dei quali l’esistenza è ben nota da tempo. A Gorno (Bergamo) ci sono piombo e zinco, a Punta Corna in Piemonte c’è cobalto, tra la bassa Toscana e il Lazio c’è litio ad alte concentrazioni nei fluidi geotermici di antichi vulcani, in Liguria ci sono vene di titanio. Per non parlare di Sardegna e Sicilia, ricche di minerali di ogni genere, che un tempo venivano estratti in grandi quantità.

Concorrenza Usa-Europa

L’accettazione sociale non è comunque l’unico ostacolo allo sviluppo di miniere e impianti metallurgici in Europa. Se la Commissione Ue è pronta ad offrire scorciatoie autorizzative e finanziamenti generosi non sarà comunque facile competere con gli Stati Uniti, divenuti un vero e proprio magnete per gli investimenti con l’Inflaction Reduction Act (Ira), che mette a disposizione centinaia di miliardi di dollari con obiettivi simili, di spinta alla decarbonizzazione, sostegno all’industria locale e taglio della dipendenza dall’estero per materiali e tecnologie critici.

Il Vecchio continente è svantaggiato anche dal caro energia. Benché il gas sia tornato a scambiare a livelli di prezzo più accettabili, l’Europa su questo fronte non è per niente competitiva. E la recente crisi ha dato il colpo di grazia a molte fonderie e raffinerie di metalli, impianti tra i più energivori.

Declino produttivo per alluminio e zinco

L'associazione europea di settore, Eurometaux, stima che la Ue negli ultimi mesi abbia perduto (per chiusure che in parte rimarranno definitive) il 50% della capacità di produrre alluminio e zinco. Ci sono stati «tagli significativi» anche nella produzione di leghe ferrose e di silicio, materiale critico quest’ultimo, che serve per i pannelli solari.

In futuro anche il riciclo ci verrà in soccorso: sarebbe la soluzione ideale. Ma le cosiddette miniere urbane non potranno mai diventare la nostra unica fonte di approvvigionamento, nemmeno nello scenario più ottimista. E comunque ci vorrà tempo - almeno fino al 2040 secondo qualsiasi studio accreditato - perché sviluppare una filiera di recupero dei materiali green.

Gli impianti in grado di farlo (e non è sempre un processo facile ed efficiente) sono ancora pochi. Ma soprattutto, banalmente, non ci sono ancora abbastanza auto elettriche in rottamazione o centrali a rinnovabili obsolete.

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