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Villa Albani, l’ateneo del Neoclassicismo

di Salvatore Settis

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  Il celebre maestro della fotografia ha realizzato le immagini del nuovo volume su Villa Albani (Copyright e Courtesy Fondazione Torlonia)

  Il celebre maestro della fotografia ha realizzato le immagini del nuovo volume su Villa Albani (Copyright e Courtesy Fondazione Torlonia)

Nello spettacolare edificio romano l'incontro tra il cardinale Albani, collezionista d'antichità, e Johann Joachim Winckelmann, studioso d'arte antica, sancì il valore educativo della classicità

21 luglio 2021
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4' di lettura

Nulla incarna l’antico Egitto più della Sfinge, nulla iconizza l’America più dello skyline di New York. Su questo piano di oggetti mnemonici rappresentativi si pone Villa Albani, impareggiabile scrigno del Neoclassico.

Johann Joachim Winckelmann

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L’incontro fra Alessandro Albani, mondano cardinale nipote di Clemente XI e compulsivo collezionista di antichità, e Johann Joachim Winckelmann, studioso oltremontano d’arte antica che trovò in Roma l’agognato paradiso, fu provvidenziale. Essi avevano in comune la cultura antiquaria radicata in Europa, che si proponeva di ricostruire un’antichità dilaniata dal tempo. Raccoglierne i frammenti organizzandoli in corpus secondo temi o classi di materiali, tradurli in disegno o a stampa: in questa impresa s’impegnavano da più di due secoli alcune fra le migliori menti d’Europa, quando verso la metà del Settecento si mise mano a Villa Albani.

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Interminabili conversazioni erudite s’intrecciavano con libri, opuscoli, carteggi fra dotti; e frequentare le antichità di Roma era ritenuto un obbligo nelle classi colte. L’antiquaria romana prese perciò un rilievo “naturalmente” europeo, ed ebbe un’insostituibile funzione-guida. A questo mondo apparteneva il cardinale Albani, circondato da provetti antiquari «di mestiere».

Canone classico

Nel suo dialogo con il cardinale, Winckelmann portò un nuovo ingrediente, il valore educativo della classicità. Le sue originali riflessioni culminarono nella Storia dell’arte nell’antichità: del 1763 è l’originale tedesco, seguito dalle traduzioni francese (1766) e italiana (1779). Un’accesa discussione aveva opposto chi intendeva il canone classico come greco e chi lo rivendicava anche (o soprattutto) ai Romani.

Paestum e Agrigento

La riscoperta dei templi dorici di Paestum e Agrigento aveva rivelato norme incompatibili con quelle di Vitruvio, ma questa divaricazione suscitava chiavi di lettura opposte: per alcuni (come il francese Mariette) l’architettura romana derivava dalla greca; altri (come Piranesi) in nome di uno sviluppo autoctono assegnavano il dorico di Paestum a matrice etrusca. Winckelmann non dubitò mai della priorità dell’arte greca, ma in Grecia non andò mai, e restò convinto che nella stessa Roma si potessero vedere supremi esempi dell’arte greca. Nelle sue pagine, il potere diagnostico dell’occhio sceverava il greco dal romano e la forza evocativa delle descrizioni trasmetteva le emozioni estetiche dell’arte greca, al fine di cogliervi “l’essenza dell’arte”. Il suo proposito, che ebbe immediato successo, era esaltare l’arte greca come ispiratrice di un’arte nuova ma anche di nuovi ideali etici ed estetici che destassero in tutti una nuova disciplina dell'intelletto e dei costumi, una più libera interiorità.

Apollo di Belvedere

La passione collezionistica del cardinal Alessandro e l’afflato visionario di Winckelmann avevano in comune anche la fisicità del rapporto con la scultura antica. Quanto sensuale fosse il rapporto di Winckelmann lo mostrano le pagine sull’Apollo di Belvedere (che riteneva un originale greco). Sul versante del cardinale, basti citare, prendendola dalla biografia di Dionigi Strocchi (1790) il racconto della scoperta dell’Apollo Sauroctonos. Appena l’Albani seppe che sull’Aventino era emersa una statua di bronzo «fatta sul modello della famosa scultura di Prassitele, la sua brama di appropriarsene fu pari alla bellezza dell’opera»; si precipitò sul posto, e «si dice che l’abbia tirata su e tenuta fra le braccia, portandola fin sulla strada e mettendola sulla propria carrozza» (la statua è ancora a Villa Albani).

L’intreccio degli sguardi intorno alle antichità Albani non riguardava solo il cardinale e il suo fedele antiquario, ma si estendeva a chiunque fosse ammesso a visitare la Villa. Winckelmann, nel desiderio di rintracciare l’originale Sauroctonos di Prassitele, cambiò idea tre volte, e lo riconobbe in un marmo Borghese (ora al Louvre), poi nel bronzo Albani, e infine in nessuno dei due. Fu intorno a casi come questo che s’intensificò la discussione sul rapporto fra originali e copie. Si ragionava su come distinguere le sculture greche dalle romane, ma anche sull’interpretazione di figure divine (sarà Apollo o Dioniso? Hera o Hestia?), sui miti o le storie rappresentate nei rilievi, su rare pietre colorate, sulla qualità delle sculture e sulla bontà dei restauri. Si alternavano a questi, fra i visitatori di Villa Albani, altri discorsi sulla Villa stessa, e non solo sulle architetture del Marchionni, ma sul suo rapporto con i modelli antichi, dall’inarrivabile Villa Adriana alle residenze descritte da Plinio il Giovane.

Villa Albani conserva ancor oggi il suo assetto complessivo dispiegando le antichità, stanza per stanza, in calcolate prossimità e simmetrie. Invita a soffermarsi su ogni singola scultura, ma anche a osservare la trama di rimandi entro cui è disposta. Non è solo uno spazio di ostentazione, ma di conversazione, e di quel vibrante Settecento che la vide nascere offre non raggelati modelli del Neoclassico, ma il fattore essenziale che gli diede forma: l’incessante discussione sulle eredità degli Antichi. Le sculture che incontriamo nei giardini, nelle sale e nelle scale, ma anche la quadreria, anche gli arredi, anche gli affreschi furono conversation pieces, oggetti in perpetuo dialogo fra loro, che implicano uno sguardo multiplo, quello dei visitatori. Questa trama di sguardi sembra ancora sospesa in quell’aria incantata: l’occhio attento del cardinale Alessandro Albani ma anche dei suoi successori nella proprietà, e specialmente del principe Alessandro Torlonia che l’acquistò nel 1866. Lo sguardo indagatore di Winckelmann, ma anche degli studiosi che nel tempo hanno studiato le sculture e la collezione nel suo insieme.

Fondazione Torlonia

Per volontà della Fondazione Torlonia, è in preparazione un libro (edito da Rizzoli in italiano e in inglese con splendide fotografie di Massimo Listri, saggi di Carlo Gasparri, Raniero Gnoli e Alvar González-Palacios e mia prefazione) che è invito a partecipare a questa conversazione secolare. A visitare Villa Albani vedendola come la restituzione di un’atmosfera di vivaci discussioni e di pensieri mutevoli, che ancora invitano a interrogare quelle antichità che paiono mute (e non lo sono) per trarne un nuovo nutrimento della mente che possa alleviare il nostro difficile presente e ispirare il nostro futuro.

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