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L’Italia della scuola continua a investire poco e a farlo male

di Eugenio Bruno e Claudio Tucci

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(Agf)

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18 settembre 2021
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4' di lettura

Puntuale come ogni settembre, con il suo rapporto annuale Education at a glance, l’Ocse ci ricorda che l’Italia spende ancora troppo poco in istruzione. Un vecchio problema che con l’arrivo della pandemia sembra aggravarsi. Con il suo 4,1% di spesa sul Pil (dato 2018, l’ultimo disponibile) il nostro Paese resta nel gruppo dei 10 Stati che investono meno nell’education. Se è vero che con gli stanziamenti aggiuntivi degli ultimi due anni il quadro di input convogliati su scuola e università potrebbe anche essere migliorato, dal punto di vista degli output i benefici non si vedono. Sempre secondo i dati pubblicati dall’organizzazione parigina il conto più salato della crisi lo stanno pagando i Neet e le donne. I soggetti notoriamente più deboli. In un quadro reso ancora più complesso dai nostri atavici divari territoriali che, con la crisi sanitaria, sembrano acuirsi.

Partiamo dai 18 mesi di pandemia, a cui l’Ocse dedica una corposa appendice, e dall’impatto che ha avuto sull’istruzione in presenza. C’è un numero che balza subito agli occhi: l’Italia ha chiuso le scuole superiori per 90 giorni contro una media di 70 dei Paesi Ocse; in Europa peggio di noi hanno fatto solo Slovacchia (115), Turchia (113), e Polonia (110). A risentirne sono stati, in via diretta, gli apprendimenti degli studenti, come ci ha raccontato l’Invalsi a luglio, e in via indiretta gli sbocchi occupazionali. Non è un caso che, nei Paesi industrializzati, i Neet sono passati dal 14,4 % del 2019 al 16,1 % del 2020, mentre da noi, nello stesso arco di tempo, sono cresciuti dal 24,2 % al 25,5 per cento. Tant’è che anche l’apparente buona notizia, per l’Italia, del calo di un punto del tasso di disoccupazione (20,3%) per gli under 25 senza diploma – mentre negli altri è salita di due punti (15,1%) – non lo è già più perché si spiega con un incremento degli inattivi.

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Altra nota dolente è il gender gap che si acuisce. Pur avendo il 35% di laureate rispetto al 23% dei loro coetanei uomini (contro una media Ocse che è, rispettivamente, del 52 % e del 39%), sono ancora troppo poche le ragazze italiane che scelgono un percorso Stem. Con i risultati retributivi che vediamo: le nostre connazionali in possesso di un’istruzione terziaria percepiscono una retribuzione pari al 71% di quella dei loro colleghi maschi, mentre tra le diplomate tale percentuale è del 79 per cento. E, come se non bastasse, solo il 30% delle donne con un’età compresa tra i 25 e i 34 anni (e in tasca solo la licenza media) ha trovato un impiego nel 2020 rispetto al 64 % degli uomini. Altrove la media è del 43% per le prime e del 69% per i secondi.

E veniamo allo spendere poco e soprattutto male da cui siamo partiti. Anche l’edizione 2021 di Education at a glance conferma la tradizione italiana di ridurre gli investimenti per l’education man mano che i livelli formativi salgono. Nel 2018, l’Italia ha speso l’equivalente di 11.202 dollari per studente nell’istruzione primaria, secondaria e post-secondaria non terziaria, 748 in più rispetto alla media (che è stata di 10.454 dollari). Quando si passa a parlare di università, invece, scopriamo che il nostro Paese ha investito 12.305 dollari per studente, ossia 4.760 in meno che nel resto dell’Ocse. Numeri che, insieme a quelli elencati in precedenza, portano la ministra dell’Università e della ricerca, Cristina Messa, a dire che «è l’intera società, partendo dal mondo del lavoro, che deve decidere di invertire rotta e dimostrare, anche sotto il profilo economico dei salari medi offerti alle donne, che riconosce il valore della loro formazione. Altrimenti – chiosa – la diceria secondo la quale la laurea è solo un pezzo di carta continuerà, in Italia, a resistere, e le nostre laureate a cercare lavoro altrove».

La parte maggiore della spesa corrente per l’istruzione, come in tutti i Paesi, va alla retribuzione dei docenti e del personale non docente e nel 2018 in Italia è stata pari al 72 % contro il 74% medio. Anche perché in Italia gli insegnanti sono un numero elevato (e solo il 23% è un uomo). Ciò spiega, in parte, la retribuzione mediamente bassa (e che cresce solo per anzianità) e che rende la professione meno attraente di altre. Con un duplice corollario: scarso appeal per i giovani, ed età media in cattedra piuttosto elevata (6 prof su 10 hanno almeno 50 anni). Le retribuzioni dei docenti ammontano a 38.978 dollari a parità di potere d’acquisto nella scuola dell’infanzia e nella primaria, a 41.800 dollari nella secondaria di primo grado e a 44.464 dollari nella secondaria di secondo grado. Tutte retribuzioni sotto le medie Ocse che sono pari, rispettivamente, a 40.707, 45.687, 47.988 e 51.749 dollari. Ma va detto che è sotto la media anche il numero medio di ore di insegnamento l’anno. In Italia sono 918 nell’infanzia, 746 alla primaria, 610 nella secondaria di primo grado e nelle superiori. La media Ocse varia dalle 989 ore per l’infanzia alle 791 della primaria, dalle 723 della secondaria di primo grado alle 685 alla secondaria superiore.

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