di Angelo Flaccavento
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Fantasia o realtà? È significativo che Manfred Thierry Mugler, creatore di sperticata inventiva e immaginifica concretezza sartoriale, sia scomparso alla vigilia della settimana parigina della haute couture che si è aperta a Parigi. Per lui i due mondi non si opponevano ma completavano. Adesso, invece? Fantasia e realtà, eccesso e rigore sono preoccupazioni e contraddizioni condivise. Non sempre si conciliano, perché il processo è complesso. In tempi di saturazione visiva e inarrestabile esposizione mediatica, sembra vincere la spinta a ridurre, quindi al realismo, o qualcosa di simile è pur sempre couture, ovvero moda per un pubblico privilegiato e occasioni speciali.
Dopo l'orgia di un 2021 speso dal marchio sulla vetrina dei red carpet adosso alle megastar, con stellare ritorno di immagine, Daniel Roseberry, da Schiaparelli, asciuga e condensa, lavorando solo in nero, bianco e volumi scultorei, ma mantenendo l'oro per gli svolazzi e gli eccessi e i barocchismi. La decisione è temeraria, se si considera che il successo è recente, e che i surrealismi kitsch lo hanno molto agevolato, e per questo è da apprezzare doppiamente. Il nuovo Schiaparelli è quasi severo e monastico, ma anche molto carnale ed esuberante figlio di un ideale ménage a trois tra Elsa, Cristobal Balenciaga e, sí, proprio Thierry Mugler. Ridotto a silhouette, strippato della teatralità soverchia, il surreale si avvicina al reale, senza perdere di fascino.
Rinuncia alla formula e si muove tra rigore ed eccesso anche Pieter Mulier, che da Alaïa, dopo l'esordio fin troppo archivistico della scorsa stagione, mette in gioco se stesso, puntando a un pubblico decisamente più giovane. Il piano è avveduto: competere con un titano inarrivabile come Azzedine Alaïa sarebbe una follia, quindi meglio rispettare i codici della casa e fare di testa propria. Quei codici, alla fine, si possono ridurre alla glorificazione del corpo femminile per sessualizzarlo al massimo grado, unendo seduzione e potere. Mulier parte da lì e punta alla moda estrema, passando dalle zampe d'elefante ai trompe l'oeil picassiani, dal tailoring mascolino alle guaine, dai gonnelloni alle camicie bianche. C'è molto, e a tratti si sfiora il volgare, ma il punto di vista è fermo e l'energia elettrizza.
«La couture ha bisogno di umani, e mi è sembrato importante metterlo in luce adesso» dice Maria Grazia Chiuri, che da Dior celebra il lavoro manuale degli atelier in ogni sua forma: da quello inapparente che scompare dentro abiti di perfetta semplicità a quello evidente dei ricami che si moltiplicano e brulicano per ogni dove, incluse le calze e le scarpe. La collezione oscilla tra questi due poli: è di una purezza assoluta oppure brilla e scintilla; copre e nasconde oppure rivela il corpo e lo sottolinea. La passione di Chiuri per le diverse forme di manualità e artigianalità è nota, e sincera. Il ricamo pervade persino il set: una retrospettiva del lavoro di Madhvi e Manu Parekh riprodotto con fili e punti dagli atelier di Chanakya. Chiuri è certamente interessata all'impatto visivo, ma il messaggio ultimo è ben più consistente, ed è una celebrazione del lavoro di atelier come opus corale nel quale il tempo speso sulle cose ne determina il valore.
erchè, conclude, «Il tempo è importante, anche se oggi si tende a credere che tutto si possa fare in un attimo». Una invocazione della lentezza che fa riflettere: la velocità come valore unico da venerare, del resto, ha un che di tossico, e certamente di poco umano.
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