di Angelo Flaccavento
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La stagione della couture parigina si è chiusa con una certezza: la moda svolta a destra, per farsi conservativa e a tratti retriva. Ma è anche moda, quindi le contraddizioni abbondano. In coda, infatti, ecco la sterzata modernista.
Da Fendi, Kim Jones non si lascia tentare da nessuno dei temi di stagione: non ci sono tracce di anni Cinquanta, non si vedono cappelli, non c'è nemmeno un corsetto. Al contrario, si lavora su una idea di linearità e allungamento, di corpo sfiorato invece che scolpito. Questa è già una piccola vittoria. È una vittoria anche la scelta di esplorare il tema - trito alquanto, ma sempre stimolante - dell'incontro di Est e Ovest, schivando i clichè. Le sete dei lunghi abiti, cosí, brulicano di astrazioni e naturalismi nipponici, ma non ci sono obi, men che mai kimono. Da queste ottime premesse, però, la collezione devia presto verso un esercizio di stile alquanto freddo, geometrico, nel quale non c'è traccia della grandeur, ma nemmeno dell'ineffabile finesse, che si associa solitamente alla couture.
Le linee sono nette, secche; gli scintilli hanno un ritmo inesorabile; tutto appiomba senza leggiadria e insomma l'amalgama delle componenti tiene poco. Andrebbe forse iniettata un po' più di sbruffoneria romana; qualcosa che scaldi. La palette, però, è poetica e sensibile.
Da Vetements, invece, di sensibilità non c'è traccia. Tutto è sparato al massimo, dai capelli ai volumi, ma non c'è nulla di originale, perchè si continua a reiterare l'idioma di Demna, che il marchio lo ha lasciato da un pezzo, e alla fine quel che viene fuori è un Balenciaga di serie B del quale non si sente davvero il bisogno.
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