di Sergio Fabbrini
(AP)
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Si dice che “it takes two to tango”. Nella crisi spagnola, il tango (cioè il compromesso) non vuole essere ballato né dal governo di Madrid né dal governo di Barcellona. Con il risultato che la Spagna, il quarto Paese per popolazione e Pil nell’Unione europea (Ue), sta avviandosi verso una crisi che avrà conseguenze drammatiche, per sé stessa e per l’Europa. Come è possibile giungere ad una crisi di queste proporzioni all’interno di un Paese democratico che è membro dell’Ue dal 1 gennaio 1986? E perché l’Ue è stata passiva di fronte ad una crisi di queste proporzioni?
Cominciamo dalla prima domanda. La crisi spagnola è la testimonianza del fallimento di due élite politiche, quella catalana e quella madrilena. I partiti che sono al governo in Catalogna hanno dato vita ad una ideologia inedita in Europa, combinando il nazionalismo radicale con il socialismo venezuelano. La coalizione dei partiti indipendentisti aveva ottenuto solamente 62 dei 135 seggi del Parlamento catalano nelle ultime elezioni (settembre 2015). Per ottenere la maggioranza, si sono alleati con un gruppo della sinistra radicale, Candidatura d’Unitat Popular (CUP), che aveva ottenuto 10 seggi. Se gli indipendentisti hanno le loro radici nel passato della lotta al franchismo degli anni Trenta del secolo scorso, la sinistra del CUP è invece l’espressione del “chavezismo” populista emigrato in Europa. I primi vogliono essere indipendenti per liberarsi da uno stato ritenuto autoritario, i secondi vogliono usare l'indipendenza per andare verso una democrazia partecipativa ritenuta superiore a quella rappresentativa.
Nonostante il CUP sia un piccolo gruppo, il suo potere di coalizione è molto grande, proprio perché garantisce al governo di avere una maggioranza in Parlamento. Ora come può, una simile risicatissima e disomogenea maggioranza parlamentare (72 seggi su 135), decidere di avviare un processo di secessione? Un processo di questo tipo dovrebbe essere avviato (almeno) da un voto di maggioranza qualificata del Parlamento catalano e dovrebbe prevedere il rispetto di espliciti criteri per legittimarne politicamente l’esito. Ad esempio, il referendum di domenica scorsa avrebbe dovuto prevedere che, senza la partecipazione della metà più uno dei cittadini che hanno diritto al voto, il suo esito non sarebbe stato valido. In Catalogna, stiamo assistendo al ritorno di un populismo democraticista che ha generato mostri dove si è affermato. Per Carles Puigdemont (il presidente della Generalitat) e Anna Gabriel (la portavoce del CUP), ciò che conta è la partecipazione dei cittadini, come se la democrazia riguardasse solamente coloro che scendono in strada. È difficile ballare il tango (trovare un compromesso) con leader politici che pensano di essere in un altro secolo o in un altro continente.
Ma in questa crisi non mancano le responsabilità, altrettanto grandi, del governo madrileno e dell’establishment spagnolo. Come si fa ad usare la forza per cercare di risolvere un contrasto storico di questa natura? Che sensibilità democratica ha uno stato che ordina ai suoi poliziotti di impedire l’accesso dei cittadini ai seggi elettorali? Se i nazionalisti catalani si rifanno alla democrazia come partecipazione, i nazionalisti madrileni ritengono che essa coincida solamente con lo stato di diritto. Naturalmente il rispetto delle regole costituzionali è fondamentale in qualsiasi paese che voglia definirsi libero. Tuttavia le regole hanno bisogno anche del consenso per essere riconosciute come legittime. Per di più, non si può neppure dire che il governo madrileno abbia sempre rispettato le regole, se è vero che è stato richiamato recentemente dal Consiglio d’Europa (un’organizzazione internazionale da non confondere con l’Ue) per i tentativi di condizionare l’indipendenza del suo Consejo General del Poder Judicial. E come può il re spagnolo Felipe VI, nel discorso pronunciato dopo gli incidenti che avevano condotto a più di 800 cittadini feriti, non fare alcun riferimento a questi ultimi? Un capo dello stato rappresenta anche i cittadini, non solo le istituzioni. Dietro la monarchia spagnola continuano ad esserci apparati e forze che non hanno ancora fatto i conti con la democrazia liberale, che si basa sulla legalità ma richiede anche legittimità per funzionare. Altrimenti non si capirebbe perché la monarchia spagnola non abbia favorito quel compromesso tra Madrid e Barcellona che avrebbe condotto ad una evoluzione federale dello stato delle autonomie, riconoscendo alla Catalogna l’autonomia fiscale che è stata riconosciuta ai Paesi Baschi? Sopravvive dunque un nazionalismo spagnolo altrettanto radicale di quello catalano. Anche in questo caso, è difficile ballare il tango (trovare un compromesso) con leader politici e istituzionali che hanno nostalgia per un passato che non può ritornare. Vediamo la seconda domanda, ovvero perché l’Europa è rimasta finora silenziosa? Sul piano legale (formale), l’Ue non poteva fare molto. Essa è un’unione di stati che hanno preservato la loro autonomia nella gestione dei propri affari interni. Non c’è un artico del Trattato di Lisbona (che è alla base dell’Ue) che preveda una procedura di intervento nel caso di un conflitto infra-statale. Certamente il Trattato scoraggia i conflitti secessionisti, là dove prevede il voto unanime dei membri dell’organizzazione per accettare al suo interno un nuovo membro. Molti, a Bruxelles, hanno pensato che ciò sarebbe stato sufficiente. Se la secessione avesse successo, infatti, la Catalogna si troverebbe necessariamente isolata in Europa. La Spagna e diversi altri paesi non voterebbero a favore dell’allargamento dell’Ue ad una Catalogna divenuta indipendente. Per loro la secessione catalana dovrà essere un esempio da non imitare. Sul piano sostanziale (politico), però, l’Ue avrebbe potuto fare molto di più. Per quanto in un'unione di stati le autorità centrali non possano entrare facilmente negli affari interni dei loro membri, tuttavia, di fronte alle grandi crisi, il richiamo al Trattato e alle sue regole non basta. Ma ciò richiederebbe un governo messo nelle condizioni di operare. Ma qui cade l’asino. Di fronte alle grandi crisi, infatti, il governo dell’Ue è costituito dal Consiglio europeo dei 27 capi di governo (più il presidente della Commissione). Ora, come può un organismo in cui siede il capo di una delle parti in lotta (il primo ministro Rajoy), assolvere una funzione di mediazione tra le parti in lotta? Il risultato è l’impotenza. Un’impotenza che si è manifestata anche nei confronti delle scelte autoritarie dei governi ungherese e polacco, i cui primi ministri siedono anch’essi nel Consiglio europeo.
La crisi della Spagna, come quella del Regno Unito, ci dimostrano le conseguenze drammatiche di scelte operate da leadership irresponsabili. Quelle crisi ci dicono anche che l’Ue non può continuare ad assistere inerme a ciò che avviene all’interno dei suoi stati membri. Deve quindi acquisire una autonomia politica da questi ultimi. Bisogna essere in due per ballare il tango, ma è necessario che ci sia qualcuno che sappia suonarlo.
Sergio Fabbrini
editorialista
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