di Gustavo Piga
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Chi ha a cuore l’unione dell’Europa ha letto con interesse e speranza il recente articolo sul «Financial Times» dei Presidenti Macron e Draghi sulla necessità di modificare le regole fiscali europee. Non si tratta di un riconoscimento tardivo dei fallimenti passati di politici ed economisti cantori di regole «troppo oscure ed eccessivamente complesse», che non danno «priorità alle determinanti spese pubbliche per il futuro e per la nostra sovranità, compresi gli investimenti pubblici», quanto piuttosto un impegno politico importante per «contribuire alla nostra ambizione collettiva per un’Europa più forte, più sostenibile e più giusta». Nell’articolo si afferma come «nuove proposte meriteranno una discussione approfondita, non offuscata dall’ideologia, con l’obiettivo di servire meglio gli interessi dell’Ue nel suo insieme» e si rimanda ad un saggio tecnico di 4 economisti, 3 italiani e un francese. Accogliere la richiesta di approfondire la discussione è essenziale per il futuro dell’Europa. I 4 economisti, in sintesi, propongono una regola apparentemente simile alla golden rule che decurta gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit rilevante così da favorirli, ma con almeno due differenze. La prima, potenzialmente positiva, ammette un trattamento speciale anche per le “spese correnti per il futuro”, su cui andrà fatta altrove una meritevole riflessione approfondita. La seconda invece è negativa, perché solo mitiga (di poco) il ritmo di riduzione del rapporto debito/Pil verso il 60%, mantiene le parti peggiori dell’attuale Fiscal Compact, rendendo la proposta incapace di rilanciare l’Unione europea, relegandola a rimanere debole, meno sostenibile, ingiusta, e dunque in ultima analisi più vulnerabile a malesseri sociali ed incline al sovranismo secessionista, come è stata nell’ultimo decennio.
Più debole perché è una proposta che non recupera spazi per la politica fiscale anticiclica ed espansiva ma che invece conferma l’attuale posizionamento fiscale, rendendolo soltanto di poco meno austero. Ad esempio, l’Italia prevede già di attuare politiche incredibilmente austere (figlie delle regole che si vogliono giustamente eliminare!) per portare il deficit dal 9,4% del PIL al 3,3% nel 2024. La proposta dei 4 tecnici lascerebbe questa situazione praticamente invariata: «i disavanzi negli attuali piani di bilancio sono inferiori a quelli richiesti dalla (nostra) regola di meno di 0,3 punti percentuali del Pil, sia nel 2023 che nel 2024». 0,3% di Pil in meno equivale a uno sconto di austerità di 5 o 6 miliardi di euro l’anno, troppo poco per essere coerente in questo contesto macroeconomico con le ambizioni manifestate da Draghi e Macron.
Meno sostenibile perché il piano non incentiva quasi per nulla investimenti pubblici per le future generazioni. Se la “spesa preferita” da mobilitare fosse infatti di 20 miliardi di euro, il premio che se ne otterrebbe sarebbe quello di ridurre la velocità dell’aggiustamento del debito, liberando risorse nel bilancio dell’anno successivo, per … 600 milioni di euro! Cifre talmente minimali da risultare irrilevanti e incompatibili con una riforma coraggiosa come quella a cui mirano i due leader.
Se poi si intendesse con sostenibilità la capacità del nostro continente di rendersi più stabile grazie all’abbattimento del rapporto debito pubblico-Pil, sappiamo ormai bene (per averlo sperimentato in Italia) cosa è che fa crescere tale rapporto: il calo di crescita dovuto all’austerità. Con le nuove regole proposte, se un Paese fissasse il suo obiettivo di riduzione del debito/Pil ad un dato valore, un più basso livello del tasso di crescita del Pil (a causa per esempio di una crisi) si tradurrebbe immediatamente in livelli più alti (austeri) di avanzo primario da raggiungere, inviluppandoci nel consueto circolo vizioso ed insostenibile.
La regola suggerita è – tra l’altro – tra le più oscure e complesse che si potessero immaginare, il contrario di quanto auspicato dai due leader. Ma soprattutto essa renderebbe più ingiusta questa Europa tralasciando le classi meno abbienti che, come hanno ben compreso Biden e il suo predecessore Roosevelt, possono essere aiutate solo per il tramite di politiche fiscali espansive, non certo austere o solo meno austere, volte alla creazione di posti di lavoro in migliaia di cantieri pubblici dedicati agli investimenti. Sia Roosevelt che Biden sapevano bene infatti cosa fosse, oggi come allora, in gioco: il futuro della democrazia degli Stati Uniti, minacciata prima da militari e simpatizzanti fascisti, ora da populisti. La minaccia in Europa sussiste ancora: si chiama sovranismo separatista che distrugge quell’Europa che i nostri due leader hanno al centro dei loro pensieri e che dunque li dovrebbe sospingere verso scelte politiche ambiziose di ben altra natura rispetto a questa prima proposta tecnica.
Gustavo Piga
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