di Marta Morazzoni
Un visitatore osserva il «Ritratto di Luisa Casati Stampa» di Romaine Books (1920)
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Ci sono due ritratti di Luisa Casati Stampa tra i tantissimi che hanno costellato la sua vita fino alla morte. I due in questione sono di Boldini e segnano due tempi della vita del ritrattista e del suo soggetto. La prima opera è del 1908, circa cinque anni dopo e con una lunga gestazione si conclude la seconda: nel 1908 per Boldini la marchesa è una affascinante, intrigante dama un po’ eccentrica, ma in fondo in linea con lo stile del tempo.
Il ritratto con levriero che le dedica non si stacca dall’idea di femminile su cui ha delineato le tante signore del primo ’900, adorandone l’eleganza, la sensualità di porcellana e un modo di essere che era “moda”. Il secondo lavoro è l’altra faccia della luna. Nessun accenno alla moda, nessuna omologazione in un tipo riconosciuto di femminilità: questa è una donna uccello ricoperta di piume, il taglio laterale degli occhi, quasi fosse la regina di Cnosso, le mani come artigli. Credo che si possa lavorare molto di fantasia attorno a questo quadro che ha in sé forse la nostalgia del pittore per l’energia perduta della gioventù, che intanto rievoca nella scelta di un’interpretazione audace della donna in quegli anni più ricca e più famosa d’Europa.
Delle molte parole dette su di lei, delle tante interpretazioni di un carattere ossessivamente ritroso e esibito quell’ultimo ritratto del pittore ferrarese mi sembra aver colto nel segno: è illuminata qui la volontà di lei di essere altro dal comune consorzio umano. E, per paradosso, tutto questo non ha nulla da spartire con la vanità. Bisognerebbe cominciare da qui a cercare una strada per arrivare a capire la natura della protagonista di un’epoca, vissuta al di sopra dei canoni del suo tempo, dei canoni del tempo in genere.
Erede di un patrimonio enorme, Luisa Amman nasce a Milano nel 1881, muore a Londra nel 1957, il 1° giugno, senza un soldo e sola, non c’è più nemmeno il cane che l’ha preceduta di poco nell’al di là. Una parabola esemplare della caducità umana e della volubilità della sorte, soprattutto quando l’insipienza “amministrativa” ci mette mano. Questo sarebbe il giudizio del buon senso su una storia che con questa categoria non ha avuto niente a che fare, e quindi quel buon senso la guarda con diffidenza e un filo di antipatia. La scelta di essere un’opera d’arte vivente e il metodico perseguirla non genera comprensione. Probabile che Michelangelo o Beethoven non fossero persone gradevoli, ma hanno lasciato opere di cui il mondo ha goduto.
Luisa Casati Stampa (questo lo status di coniugata, mantenuto anche dopo il divorzio) non ha lasciato che se stessa, le tante immagini di lei da lei sollecitate a pittori, scultori, sarti, perché il suo corpo - rivestirlo, dipingerlo, rappresentarlo - è stato il fine e il mezzo della sua arte.
Quando mi sono imbattuta per caso in questa eccentrica figura, nel suo nome e nella sua sconcertante storia, la sorte mi ha giocato un tiro da cui non ho saputo difendermi: nella sua vita la marchesa Casati ha percorso l’Europa, ha conosciuto e frequentato artisti di ogni genere, ha incontrato tra gli altri e con singolare sintonia Gabriele d’Annunzio. E l’ha incontrato, la prima volta, a Gallarate! Cioè a 500 metri da casa mia, dove bosco e brughiera ancor oggi cercano di tenere a distanza le case. Al limite della brughiera c’è una sobria vecchia villa settecentesca: naturale che mi sia detta: dove, se non lì, i due si sarebbero incontrati?, alla fine di una battuta di caccia alla volpe nel territorio che poco oltre si avvalla ora verso l’aeroporto della Malpensa (una volta terre del cardinal Tosi di manzoniana memoria); ma a quel tempo, 1901, era una linea continua che portava fino il Ticino.
L’evocazione di luoghi che ci appartengono e non ne sappiamo magari leggere la bellezza, come succede nei territori un po’ martoriati di certa Lombardia, muove alla suggestione. La marchesa Casati è una sorta di meteora rossa passata una volta in questi boschi, quelli che percorro d’abitudine nelle camminate in ogni stagione dell’anno. Difficile dire che sollecitazione potesse nascere da questo dettaglio. Ma era nelle corde del soggetto indicarmi la risposta: farle un ennesimo ritratto, cogliendola in un momento di passaggio, sul crinale tra il tutto e il niente, di qua una sconfinata ricchezza, di là la miseria. La sua immagine era passata per le mani di ammiratori e interpreti entusiasti della sua originalità, dal fotografo De Mayer a Augustus John, a Kees van Dongen. Aveva conosciuto lo sguardo originale e provocatorio dei futuristi, Depero sopra tutti e da lì, dalla singolare scomposizione delle forme, era nata la scanzonata irriverenza del Gadda che alludeva a lei sotto il nome di marchesa Cavalli nella novella San Giorgio in casa Brocchi.
Tempo prima la Marchesa era stata anche oggetto di un poemetto del barone di Montesquiou. Insomma quanti l’avevano se non adorata, osservata e rappresentata! Era il centro magnetico della scena, una sorta di inspiegabile forza gravitazionale che non ha paragone. Nel cercare di tratteggiate il disegno che lentamente mi si formava in testa, a volte sfuggente a volte così certo, ho avuto in mente l’ultima sequenza di questa lunga teoria di ritratti: sono tre scatti fotografici rubati a lei da Cecil Beaton. Rubati, sì, quando per solito era la marchesa stessa a offrirsi e sollecitare l’attenzione di un artista, salvo insinuare poi l’idea che in ogni caso lei fosse altro ancora da quello che l’arte si illudeva di cogliere. Ma è il 1954, il cerchio si sta chiudendo e le tre fotografie scure, confuse, raccontano di un cupo rifiuto. Era troppo vecchia? A me piace pensare che in questo «no» irato a un grande fotografo si nascondesse la certezza del suo essere comunque e per chiunque inarrivabile. Credo che il suo «no» cadrebbe come un maglio anche su quest’ultimo ritratto a parole. Approfitto della sua impossibilità, ora, a levarmi la penna o meglio il computer di mano, come cercò allora di fare con la macchina fotografica di Beaton.
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