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Erbil, al voto i curdi contro tutti

dall'inviato Roberto Bongiorni

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La scelta dei curdi. La manifestazione allo stadio Franso Hariri di Erbil, alla vigilia del referendum del 25 settembre

La scelta dei curdi. La manifestazione allo stadio Franso Hariri di Erbil, alla vigilia del referendum del 25 settembre

23 settembre 2017
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5' di lettura

KIRKUK - Il referendum che non vuole nessuno, o quasi, sta mettendo d’accordo tutti. Quante volte si sono visti Stati Uniti e Iran condividere lo stesso obiettivo? E quante volte abbiamo visto Iraq, Turchia, Arabia Saudita, Siria e i Paesi europei fare altrettanto? Anche se ognuno ha le sue diverse ragioni, l’obiettivo resta lo stesso: il referendum consultivo per l’indipendenza indetto il 25 settembre nel Kurdistan iracheno non s’ha da fare. Non ora, sostengono Stati Uniti, Paesi europei, e quelli che adottano un approccio più morbido. Mai, tuonano Iran e Iraq. «Interrompetelo», ha ammonito il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.

Le preoccupazioni sono comprensibili. Il voto che potrebbe sancire l’indipendenza di una regione autonoma di fatto già indipendente rischia di provocare un terremoto nel già martoriato Iraq e nei Paesi vicini. Nella peggiore delle ipotesi saranno le armi a parlare, di nuovo. Anche perché il voto si svolgerà in alcune regione contese, alcune delle quali ricchissime di petrolio. Se anche i sauditi, acerrimi nemici dell’Iran, si sono appellati ai curdi affinché facciano una passo indietro, la preoccupazione diviene ancor più comprensibile.

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L’Iraq

Per il Governo iracheno l’idea di perdere il Kurdistan e tre province petrolifere irachene, dal 2014 controllate dai curdi, non è ammissibile. Senza Kurdistan e Kirkuk, il governo centrale di Baghdad - che insiste a volere gestire le rendite energetiche di tutto il Paese - resterebbe orfano di quasi la metà delle riserve di greggio nazionali e di almeno il 15% dell’attuale produzione nazionale. Cosa inaccettabile in un momento in cui la guerra all’Isis ha messo in ginocchio le finanze di Baghdad.

La posizione del Governo iracheno è irremovibile. Nessun referendum. Né ora né mai, ha rincarato la dose il premier Aidar al-Abadi. Evocando, pur ammettendo che Baghdad non reagirà militarmente, lo spettro di una guerra civile.

Gli Stati Uniti
La potenza occidentale alleata da oltre 25 anni ai curdi iracheni ha le proprie valide ragioni. Il referendum potrebbe rallentare, se non fermare, la campagna militare contro l’Isis in un momento in cui versa in grandi difficoltà. D’altronde, se Mosul è caduta, lo si deve in parte a due forze militari che hanno agito in operazioni coordinate: gli agguerriti Peshmerga kurdi, armati e addestrati da tempo dagli Stati Uniti, e l’esercito di Baghdad. Entrambi favoriti dai martellanti raid aerei americani .

E non è la sola ragione. La Casa Bianca da tempo ha un solo obiettivo: fare di tutto per unificare l’Iraq, una delle maggiori potenze petrolifere mondiali, e preservare la sua unità. Il leader su cui punta è l’attuale premier sciita Aydar al-Abadi, sicuramente più moderato del controverso leader che lo ha preceduto, Nouri al-Maliki, reo di aver messo ai margini la comunità sunnita irachena, di fatto escludendola dal potere. Le rivolte sunnite represse prima delle primavere hanno contribuito a creare un habitat congeniale per i jihadisti dell’Isis, abili inizialmente a cavalcare lo scontento dei sunniti iracheni. Il prossimo marzo si svolgeranno le elezioni irachene.

Se il referendum curdo dovesse svolgersi – l’esito è scontato – prevarrebbe un’ondata di nazionalismo, una crescente ostilità nei confronti delle etnie e delle confessioni di minoranza (in Iraq vi sono due milioni di curdi). Insomma al-Abadi sarebbe in difficoltà, i suoi rivali, il religioso Moqtada al-Sadr, alleato di ferro dell’Iran e nemico giurato degli Stati Uniti, o il controverso al-Maliki.

Un’ulteriore iranizzazione dell’Iraq è l’ultima cosa che desidera l’amministrazione di Donald Trump. Al punto da aver avvertito il Governo regionale del Kurdistan (Krg) che, se si svolgesse il voto, Washington potrebbe perfino rivedere i rapporti con Erbil, le forniture di armi, la sua protezione. «Il referendum potrebbe mettere a rischio le relazioni commerciali del Kurdistan iracheno nella regione e l’assistenza internazionale di tutti i tipi», ha dichiarato Heather Nauert, portavoce del dipartimento di Stato.

La Turchia

Verrebbe da pensare che i turchi, alle prese da anni con la guerriglia scatenata dal movimento terroristico curdo Pkk, possano vedere come il fumo negli occhi un Kurdistan indipendente. Questo è vero da un certo punto di vista: Ankara teme che il referendum possa riaccendere l’irredentismo dei curdi turchi per la creazione di un loro stato in Turchia. Non è affatto escluso. Le autorità turche hanno subito avvertito Erbil. «Pensiamo che questo approccio ignori la Repubblica della Turchia, che è stata dalla loro parte e li considera stretti alleati», ha dichiarato il presidente Erdogan da New York , aggiungendo: «Il governo valuterà senza dubbi questa situazione e possibili sanzioni, che non saranno ordinarie» . Sarà addirittura un embargo petrolifero?

Tuttavia da ormai molti anni il rapporto, non solo commerciale, che lega i turchi ai curdi iracheni, si è andato rafforzando. Sono alleati . Da un punto di vista politico, perché i curdi iracheni sono nemici del Pkk. Da un punto di vista commerciale, perché l’unico oleodotto che trasporta il greggio del Kurdistan iracheno, regione senza sbocchi sul mare, passa appunto per la Turchia. In Kurdistan iracheno operano 4mila aziende turche. Lo scambio commerciale tra Krg e Ankara ammonta a circa 10 miliardi di dollari.

Il silenzio di Mosca

E la Russia? Alla politica il Cremlino preferisce il business. Finora ha mantenuto il silenzio. Ma l’accelerazione degli investimenti energetici russi, tramite la major Rosneft, in Kurdistan iracheno – accordi per quattro miliardi di dollari in 9 mesi - parlano da soli.

L’Iran
È forse il Paese che vede con maggior preoccupazione il referendum. Anche agli occhi degli ayatollah il pericolo concreto è che si riaccenda l’irredentismo dei curdi iraniani, repressi anche duramente sin dai tempi della Repubblica islamica, ma anche prima. È proprio in Iran che nel 1946 i curdi auto proclamarono il loro primo Stato, la Repubblica di Mahabad. Ebbe vita breve, undici mesi, prima di essere repressa da Teheran.

Il maggior timore di Teheran è tuttavia vedere avamposti del suo acerrimo nemico – Israele – proprio ai suoi confini, nel suo giardino di casa. Non è un segreto lo stretto legame tra Israele e il Kurdistan iracheno. Già dagli anni 60 Erbil e Gerusalemme mantengono legami diplomatici, commerciali e d’intelligence(forse anche militari). In alcuni mesi del 2015, da maggio ad agosto, un’inchiesta del Financial Times evidenziava che Israele aveva importato dal Kurdistan iracheno quasi l’80% del petrolio che consuma. Se il Krg restasse isolato, Gerusalemme potrebbe anche aiutarlo militarmente. Lo stesso primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha espresso il proprio sostegno: «Israele sostiene i legittimi sforzi del popolo curdo nella costituzione di un proprio stato».

La sola voce fuori dal coro in un referendum che non vuole nessuno. O quasi.

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