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Joe Biden e le elezioni con l’America sotto stress

di Sergio Fabbrini

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(REUTERS)

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3 gennaio 2022
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4' di lettura

Non sarà un anno facile, il 2022, per il presidente americano Joe Biden. Anche se, a dire il vero, neppure il 2021 lo è stato. La democrazia americana è sottoposta ad uno stress senza precedenti dovuta alla polarizzazione tra i due maggiori partiti. Polarizzazione che ha condotto alla frammentazione del partito democratico e alla centralizzazione del partito repubblicano. A novembre 2022 si terranno le elezioni di “mid-term” (che riguarderanno tutti i 435 membri della Camera ed 1/3 dei 100 membri del Senato), elezioni che renderanno Biden ancora più isolato alla Casa Bianca. La democrazia americana cammina sull’orlo di una crisi costituzionale. Vale la pena di capire perché.

Dopo la luna di miele iniziale in cui Biden era riuscito a rilanciare una vigorosa campagna anti-vaccinale, la resistenza politica a quest'ultima si è fatta presto sentire.

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Molti stati governati dai repubblicani hanno assunto una posizione critica sulla vaccinazione, legittimando sentimenti contrari a quest'ultima. La situazione sanitaria si è talmente aggravata che persino Donald Trump è dovuto recentemente intervenire per invitare a vaccinarsi. Nonostante ci sia una maggioranza democratica alla Camera e (risicata) al Senato, Biden ha visto ridotto e spezzettato il suo programma newdealistico noto come “Build Back Better”. Il sottoprogramma (“American Jobs Plan”) di 2,25 trilioni di dollari, presentato al Congresso nel marzo 2021, è stato dimezzato a 1,2 trilioni di dollari ed è divenuto legge, con il nome di “Infrastructure Bill”, solamente nel novembre successivo. Il sottoprogramma di 1,75 trilioni di dollari, relativo ad investimenti ambientali e sociali, è ancora bloccato in Senato. Il primo sottoprogramma è stato posticipato dai democratici radicali della Camera, guidati da Alexandria Ocasio-Cortez, perché considerato troppo limitato (per via dei tagli). Il secondo sottoprogramma continua a essere bloccato dal senatore democratico moderato Joe Manchin, perché considerato troppo radicale (nonostante i tagli). Nello stesso tempo, l'opposizione dei repubblicani nelle due camere è stata senza sconti. Quasi nessun repubblicano ha attraversato il corridoio per sostenere le proposte democratiche.

Tale polarizzazione è destinata ad accentuarsi con le elezioni del novembre prossimo. Per via dei cambiamenti demografici registrati dai censimenti decennali, i legislativi degli stati (ovvero le loro maggioranze) debbono ridisegnare i distretti per l'elezione dei rappresentanti alla Camera. Negli stati a maggioranza repubblicana, il gerrymandering ha condotto a distretti disegnati per frammentare le minoranze etniche (considerate favorevoli al partito democratico) e favorire l'elettorato bianco. Per di più, in quegli stati, la partecipazione elettorale delle minoranze etniche (afroamericani, in particolare) è stata resa più difficile. Se ne vedranno i risultati nell'elezione del prossimo novembre, con la Camera destinata a ritornare sotto il controllo repubblicano. Nello stesso tempo, i senatori repubblicani hanno impedito qualsiasi riforma del filibustering, una convenzione che consente a 40 senatori di bloccare ogni proposta di legge indesiderata. Poiché ogni stato dispone di 2 senatori, ciò significa che i senatori dei 20 più piccoli stati (rurali e bianchi, generalmente a maggioranza repubblicana) possono tenere prigionieri gli altri 60 senatori. Se si considera poi che quei 20 senatori rappresentano una popolazione totale inferiore alla popolazione di un singolo stato con i suoi 2 senatori (ad esempio, la California a maggioranza democratica), allora siamo di fronte ad una vera e propria “tirannia delle minoranze”. Lo sbilanciamento a favore degli stati rurali e bianchi del Senato e la nuova geografia elettorale della Camera influenzeranno a loro volta il Collegio elettorale per l'elezione presidenziale del 2024, a favore del candidato repubblicano. Inoltre, la maggioranza repubblicana della Corte suprema (6 membri su 9) ha dichiarato come intoccabile la sentenza del 2010 (Citizens United v. FEC) che autorizzò l'uso senza vincoli di fondi privati per le campagne elettorali, purché quei fondi “fossero spesi indipendentemente dai candidati”. Tale sentenza ha condotto ad investimenti finanziari sconsiderati a sostegno di campagne collegate agli interessi degli investitori (come le campagne della National Rifle Association a difesa dei detentori delle armi da fuoco) e “indirettamente” dei candidati (repubblicani) che le sostengono. Avendo deciso di rappresentare primariamente l'elettorato bianco, il partito repubblicano è impegnato a trasformare una maggioranza sociale che si sta riducendo ogni anno (i bianchi non ispanici sono oggi il 57,8 per cento della popolazione, erano il 63,7 per cento nel 2010) in una maggioranza politica che cresce ad ogni elezione. Non sarebbe altrimenti comprensibile la reazione dei sostenitori di Trump dopo la sua sconfitta nel novembre 2020, reazione che portò all'incredibile assalto del Congresso il 6 gennaio successivo. In un articolo uscito su Foreign Affairs il 10 dicembre scorso, il giurista di Harvard Lawrence Lessig ha definito come “democrazia minoritaria” il modello politico del partito repubblicano. Nel New York Times del 29 dicembre, il giurista della NYU Richard H. Pides ha spiegato come tale modello stia avvicinando l'America alle oligarchie autoritarie che dovrebbe invece combattere.

Insomma, c'è da preoccuparsi di ciò che sta avvenendo in America, anche perché l'Europa non dispone della legittimità e della forza per compensarne le difficoltà. Un'America divenuta una grande Ungheria renderebbe il mondo meno democratico e più insicuro.

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