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Esg, la guerra frena gli investimenti «verdi»

di Marcello Minenna

ESG Investment Summit, 14 Aprile

Un mix di fattori tossici che nel primo trimestre 2022 ha avuto un impatto evidente sull’emissione di debito sostenibile

2 maggio 2022
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7' di lettura

I venti di guerra in Ucraina, l’elevata inflazione nei settori dell’energia e delle materie prime e il rafforzamento delle aspettative di rialzo dei tassi di interesse, in forte crescita a livello globale, stanno cominciando ad avere effetti negativi anche sul comparto più in crescita della finanza internazionale: gli investimenti verdi o Esg (Environmental, Social and Governance). Si tratta di un mix di fattori tossici che nel primo trimestre 2022 ha avuto un impatto evidente sull'emissione di debito sostenibile: -35% rispetto al quarto trimestre 2021 e -10% rispetto ad un anno prima, un calo mai registrato in precedenza.

In dieci anni, infatti, il mercato degli investimenti green è stato sostanzialmente in crescita ininterrotta e negli ultimi trimestri il rialzo parabolico delle emissioni stava suggerendo chiaramente l’avvio di una bolla speculativa (vedi Figura 1). In termini di emissioni, il 2021 aveva chiuso con il botto, al di là di ogni previsione di crescita: 1.500 miliardi di $ di debito sostenibile, un incredibile +90% rispetto al 2020, che pure aveva registrato un sensibile trend di aumento.

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A subire maggiormente lo stop improvviso (-60% nell’ultimo trimestre) sono stati i prodotti dall’ingegneria finanziaria più sofisticata, i prestiti e le emissioni obbligazionarie sustainability linked (vedi Figura 2, barre gialle e rosse), che avevano conosciuto un boom incredibile negli ultimi trimestri di crescita febbrile del mercato. Il calo è però evidente anche sui prodotti plain vanilla, come i green bonds/loans classici (barre verdi) strutturati intorno ad uno standard globale di certificazione (-40%).

Tiene invece il mercato dei social bonds (barre blu), obbligazioni destinate a finanziare le Casse Integrazioni Guadagni ed altri schemi di protezione dell'occupazione: nel 2020 l’Unione Europea (Ue) era stata l’apripista a livello globale nell’emissione e management di social bonds a rischi condivisi grazie al progetto Sure (temporary Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency) che ha erogato quasi 100 miliardi di € ai Paesi membri più colpiti dalla crisi pandemica.

I segnali anticipatori dello stop e il ruolo dei tassi di interesse

Nella frenesia speculativa degli ultimi mesi, la forza della domanda di debito verde da parte degli investitori è stata tale da ignorare i segnali di allarme che arrivavano dal mercato secondario. Infatti, i principali indici azionari/obbligazionari del settore avevano virato al ribasso già all’incirca da marzo/aprile 2021, quando la forza della ripresa economica globale aveva delineato il progressivo arresto del ciclo di espansione monetaria delle banche centrali.

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La tendenza era accelerata nelle prime settimane del 2022 e il fattore principale è da ricercare nel consolidamento delle aspettative di rialzo dei tassi di interesse in tutte le principali macro-aree dell’economia mondiale. A gennaio l’ultimo meeting della Federal Reserve (Fed) aveva ufficializzato ciò che il mercato stava paventando da diversi mesi: il 2022 potrebbe essere caratterizzato da 6/7 rialzi dei tassi di interesse di riferimento Usa, di cui solo 1 al momento è cosa fatta.

La mossa della Fed si è innestata all’interno di un trend globale che ha visto la Bank of England e le banche centrali di molti Paesi emergenti (Russia, Brasile, Messico, Sud Africa) avanguardie di un ciclo di politica monetaria restrittiva. A marzo anche la Banca Centrale Europea (Bce) ha rotto gli indugi e ora è altamente probabile che la seconda parte dell’anno possa essere caratterizzata da 1 o 2 rialzi dei tassi di interesse chiave.

Anche per le obbligazioni sostenibili vale la «legge di gravità» dei tassi di interesse: se i rendimenti delle future emissioni saranno sicuramente più alti, allora i prezzi degli strumenti finanziari attualmente quotati accuseranno il colpo. Il debito verde è più esposto a questo tipo di effetto rispetto ai bonds convenzionali, a causa dei bassissimi rendimenti (5-10 punti base in media meno delle obbligazioni standard, il c.d. greenium) e delle scadenze lunghe a cui è stato collocato nell’ultimo anno di grande euforia.

Nell’ultimo trimestre dunque gli emittenti sono stati costretti a strutturare la propria strategia di funding prevedendo rendimenti ben più alti e questo ha contribuito a ridurre l’offerta complessiva di debito sostenibile. In alcuni casi, maggiori utili societari e un minor fabbisogno di fondi potrebbero avere contribuito al calo delle emissioni, ma è verosimile che il ruolo di questo fattore sia minoritario rispetto alle condizioni finanziarie più restrittive.

La battuta d’arresto della finanza verde strutturata

La dinamica dei tassi di interesse non spiega tuttavia in maniera soddisfacente perché il calo abbia interessato soprattutto i sustainability linked bond/loans (Slb, Sll), che in poco più di tre anni sono arrivati a rappresentare - al picco - il 34% dell'intero mercato degli investimenti Esg. Nell’ultimo trimestre le stime più ragionevoli del peso di queste categorie si aggirano intorno al 18 per cento .

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Con i Slb/Sll l’industria ha in sostanza introdotto strumenti finanziari con sfumature di verde molto più labili. L’obiettivo è stato ottenuto attraverso un'iniezione massiccia di ingegneria finanziaria nella determinazione dei rendimenti, al costo probabile di una maggiore vulnerabilità ai rischi di mercato.

I Slb/Sll infatti incorporano per design una maggiore flessibilità nella raccolta ed utilizzo dei proventi, al fine di permettere ad imprese operanti in settori non green come l’industria chimica o degli idrocarburi di accedere a un mercato in crescita.

Capiamo meglio. Stante la presenza di obiettivi piuttosto «generici» di miglioramento dell’impatto ambientale è sorta la necessità di ancorare (il link) le performance di questi strumenti ad indicatori chiave di sostenibilità (key performance indicators, Kpi). In parole semplici, l’obbligazione (o il prestito) sustainability-linked paga delle cedole che sono collegate in maniera diretta al raggiungimento di livelli-obiettivo in alcuni indicatori chiave, come ad esempio l’ammontare emesso di CO2 oppure la minimizzazione di scarti di produzione tossici.

Se l’impresa manca questi obiettivi, le cedole crescono automaticamente secondo un meccanismo step-up incrementando il costo complessivo del finanziamento di un ammontare pari alla stima teorica del danno prodotto dal comportamento negligente.

Da un lato il meccanismo del link con gli indicatori Kpi sembra offrire un innegabile incentivo all'impresa a centrare l’obiettivo di sostenibilità: mentre con i green bonds la responsabilità dell’impresa è solo reputazionale, in questo caso ci sarebbe un effetto economico tangibile sui conti aziendali. Dall’altro i bondholders sono (teoricamente) più tutelati rispetto agli investimenti green standard, potendo contare su un potenziale bonus in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi ambientali.

Non stupisce pertanto che queste nuove tipologie di investimento abbiano ottenuto un travolgente successo sia tra gli emittenti che tra gli investitori. Il problema è che allo stato attuale continua a non esistere una definizione univoca e standardizzata per gli indicatori Kpi che possa consentire di effettuare un controllo esterno sul raggiungimento delle performance e paragoni chiari tra prodotti. La mancanza di standard univoci ha favorito una rapida crescita della complessità (e dell'opacità) di determinazione degli indicatori, che sta replicando quanto si era osservato con i prodotti strutturati creditizi nel periodo antecedente alla crisi finanziaria internazionale del 2008-2009.

Tra le imprese emittenti si è diffusa la pratica scorretta di porre l’asticella degli obiettivi molto vicino ai livelli attuali già raggiunti, per avere la certezza di centrarli senza troppo sforzo e mantenere gli esborsi al livello minimo. Complessità, opacità ed indeterminatezza nella struttura finanziaria del prodotto non consentono una chiara valutazione dei rischi, che potrebbero risultare amplificati in situazioni di stress finanziari multipli come in questo periodo.

Si ferma anche il mercato dei certificati di emissioni di CO2

Un’altra vittima green illustre dello sconvolgimento geopolitico degli ultimi mesi è il mercato dei certificati di emissione di anidride carbonica (CO2), che aveva sperimentato una crescita del 200% negli ultimi 24 mesi a livello globale, più accentuato in Europa dove ha raggiunto punte superiori al 300%. Da febbraio 2022 si è osservato un calo del 25% in Europa, molto più aggressivo rispetto al resto del mondo (-10%), dove Cina, Indonesia e Corea del Sud stanno proseguendo l'accelerazione sui certificati di emissione.

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A oggi, il mercato europeo è ancora il più liquido e sviluppato e rappresenta quasi il 40% di quello globale. Storicamente il valore dei certificati di emissione è stato sempre direttamente correlato alle quotazioni del gas naturale, un combustibile largamente appetibile dato che genera circa il 50% di CO2 in meno del carbone. Nel lungo inverno di restrizioni all'offerta da parte della Russia che ha preceduto il conflitto con l’Ucraina, questo indicatore ha seguito fedelmente l’ascesa del prezzo del gas. I prezzi elevati hanno poi favorito l'arrivo di speculatori professionisti specializzati in commodities (tra cui colossi del settore come Royal Dutch Shell e Glencore) che hanno assunto posizioni lunghe nell’aspettativa di conseguire profitti.

L’avvio delle ostilità a fine febbraio 2022 ha provocato uno spettacolare decoupling tra le grandezze, con il crollo del mercato dei certificati di emissione di CO2 e l'impennata dei prezzi del gas. Questo fenomeno è stato causato da tre fattori. In primis, gli investitori hanno liquidato le loro posizioni sul mercato per coprire le perdite in altre asset class e/o per accrescere le proprie riserve di liquidità. Ciò conferma che i certificati CO2 possono essere utilizzati come attività liquidabili in caso di necessità, un po’ come altri strumenti di copertura dal rischio di tasso di cambio e di tasso di interesse.

Parimenti, gli operatori hanno scontato i timori di una recessione tecnica in arrivo per via dell’aumento dei prezzi dell’energia, caratterizzata da minore produzione manifatturiera e quindi meno emissioni di anidride carbonica / diossido di carbonio. Infine c'è stato un effetto tecnico c.d. snowball (palla di neve) di vendita automatica dei certificati, innescato da esigenze di ricopertura delle posizioni dei traders.

Paradossalmente, il rischio di uno stop completo alle forniture di gas paventato più volte dai governi europei ha favorito un rimbalzo parziale del mercato, in quanto la prospettiva di un maggiore consumo di carbone in sostituzione del gas aumenta le stime di emissioni di CO2 del settore energetico e quindi la domanda di quote.

Il deflusso dai fondi di investimento Esg

Il deflusso di capitali è evidente anche nel settore azionario e dei fondi di investimento specializzati in ESG: con soli 75 miliardi di $ in ingresso, il primo trimestre 2022 registra il peggiore risultato dal 2018, in discesa del 55% dai massimi di inizio 2021. Il risultato deludente si spiega con la crescente esposizione dei fondi Esg sui titoli tecnologici (vedi Figura 5), che hanno scontato un ribasso comparativamente peggiore rispetto al resto del mercato negli ultimi mesi e con lo shift della porzione di flussi finanziari più volatile verso i titoli energetici sostenuti dai prezzi record.

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È presto per dire se ci troviamo realmente ai prodromi dello scoppio della bolla sul debito sostenibile. Certo le prospettive, estremamente favorevoli fino a qualche mese fa, hanno subìto un inedito e significativo ridimensionamento.

Marcello Minenna, Direttore Generale dell'Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli
@MarcelloMinenna
Le opinioni espresse sono strettamente personali

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