di Gianni Rusconi
(ANSA)
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Quali sono le responsabilità a cui vanno incontro le organizzazioni per le informazioni che gestiscono? Una domanda che torna d’attualità solo in caso di gravi incidenti informatici e che invece dovrebbe essere argomento di dibattito quotidiano per il management, perché non può essere un errore che provoca danni ingenti a indurre la messa a fuoco di una tema chiave (e spesso e volentieri scivoloso) dell’etica dei dati.
Ne è convinto Fabio Pascali, Regional Vice President di Cloudera per l’Italia (società di software americana specializzata nel campo delle soluzioni di cloud ibrido), che cita ad esempio il caso che coinvolse nel 2017 l’agenzia Usa attiva nell’ambito del credito al consumo Equifax, vittima di una violazione che interessò 150 milioni di utenti a livello globale. La società rese pubblico l’attacco subito solo a distanza di tre mesi dall’accaduto, incorrendo in una sanzione di 700 milioni di dollari.
L’episodio, come osserva Pascali, è stato quanto mai importante perché ha aperto un dialogo più ampio sulla relazione spesso precaria che esiste tra dati, etica e responsabilità aziendale. E non è un caso, a suo dire, che la consapevolezza pubblica sulle modalità di tracciamento, raccolta, conservazione e utilizzo dei dati residenti nei data center dei grandi provider sia da quel momento in poi progressivamente cresciuta, sfociando anche in obblighi legali finalizzati alla creazione di procedure etiche e trasparenti sui dati.
Per le organizzazioni è nato inoltre un ulteriore tema sul quale confrontarsi, e cioè l’assunzione “formale” di una responsabilità etica con la nomina di un Chief Ethics Officer. Ma questo ruolo emergente, si chiede il manager di Cloudera, può essere l’unica risposta per risolvere tutti i dilemmi in tema di dati aziendali?
Tutte le aziende, o almeno la maggior parte di esse, a prescindere dal settore in cui operano, sono oggi interessate dall’utilizzo dei dati a fini di business, e tale tendenza ha messo al centro il tema della fiducia dei consumatori/utenti soprattutto nei confronti delle organizzazioni che a vario titolo raccolgono e detengono le loro informazioni personali.
Il punto della questione, come evidenzia Pascali citando un recente studio di Adobe, è il seguente: un consumatore che risulta vittima di un furto d’identità per una violazione dei propri dati personali smetterebbe di acquistare da un marchio in più di un caso su due. In altre parole, più sono alti i livelli di fiducia verso un brand, più è elevata la fedeltà del cliente a questo marchio nel lungo termine, con tutti gli impatti del caso sulla redditività del business.
Fiducia ed etica, questo l’assunto finale, stanno diventando un principio centrale della redditività futura e per aumentare il livello di fiducia nei loro confronti ogni organizzazione è chiamata a dimostrare di assumersi la responsabilità dei dati. Inserire in organico un Chief Ethics Officer, come hanno già fatto alcune multinazionali dell’informatica, è come detto una strada ma non è certo l’unica a disposizione. La sfida da vincere, per le aziende, è portare l’etica a un ruolo davvero centrale nell’ambito dei processi legati ai dati, e per fare questo serve promuovere la responsabilità collettiva, ricostruire le policy e concentrarsi su misure proattive. A prescindere dalla presenza o meno di una figura dedicata.
Ciò che conta davvero, come sottolinea ancora il manager di Cloudera, è dunque definire la proprietà e la responsabilità del dato in azienda attraverso uno sforzo condiviso da tutta l’organizzazione, evitando di affidare questo compito a un singolo individuo. I leader aziendali devono essere quindi proattivi in fatto di politiche per l’etica dei dati e non semplicemente reattivi, devono creare le condizioni per inserire questa tematica nell’ecosistema dell’organizzazione, plasmando i modi di operare delle persone e prendendo decisioni, incorporandola in tutti i dipartimenti, dalla fase di progettazione al marketing.
In attesa di consolidare questo approccio, la priorità di tutti deve essere quella di consolidare e preservare la fiducia che un consumatore/utente ripone su un determinato brand. Se questa viene meno perché il management non ha saputo definire i necessari processi collettivi sul chi raccoglie, controlla e salvaguarda i dati, il rischio di incorrere in una diminuzione dei propri profitti aumenta automaticamente.
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