di Natalino Irti
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Come logora e consunta dall’uso la parola “valore”. Ci giunge oggi dall’economia (i beni sono cose che hanno valore per pregio intrinseco o rarità), e poi dilaga in ogni campo del vivere umano. E crescono di giorno in giorno, e si espandono a regimi politici, unioni monetarie, alleanze militari, leggi costituzionali e norme ordinarie. Non più principî immutabili nel tempo, o fedi religiose evocanti la divinità, ma enti ed oggetti che la volontà umana solleva ed erige a valori. Sono generati e sorretti dalla volontà di coloro che li pongono, e perciò pronti in loro difesa a patire gravi pericoli e rischî estremi.
Il disvelarsi del volere, il quale per sua indole è proprio di ogni uomo, e si esprime mutevole e precario, toglie ai valori qualsiasi rango di immutabilità. Nascono e tramontano insieme con la volontà che li generò e accompagnò nel cammino terreno. Così diventano criterî temporanei di condotta, o si levano crudeli e impietosi nel giudizio, o scadono a materia di negoziati transattivi e patti di morte. La perdita della perenne immutabilità (il “Dio è morto” di Nietzsche) li consegna alla finitezza del volere umano.
E questo li rende intrinsecamente storici e variabili. Non c’è alcun magistrato, che, muovendosi al di sopra della storia, possa giudicarli, apprezzandoli o condannandoli. Sta a ciascun individuo di sceglierli e di assumerne la responsabilità. È il politeismo dell’età moderna, indagato e definito da Max Weber, del quale è memorabile la pagina “tra le due leggi”, che premono e stringono sull’animo dell’uomo, e nessuno può consigliarlo o sostituirlo nella scelta, tutta affidata alla sua volontà.
La filosofia e la pratica dei valori vorrebbero salvare il mondo dall’abisso, e opporsi al vuoto e al disincanto del nichilismo. Ma la battaglia si risolve, quasi per paradosso, nell’estremo e oscuro soggettivismo di coloro che dichiarano di porre o scoprire valori. In questa conversione di norme in valori è – come vide l’acutissimo Carl Schmitt – la radice di una crisi profonda. Il giudice non è più chiamato ad applicare la legge (a cui pur sarebbe soggetto per dovere costituzionale), ma ad attuare valori: vaghi, indefiniti, incerti nel contenuto e nella dimensione, duttili e proni alle qualsiasi circostanze del caso.
E parimenti l’uomo di governo, in luogo di calcolare la concretezza di interessi e bisogni, e di osservare il giuoco delle potenze storiche; anch’egli si lascia prendere dal mistero dei valori (o forse è soltanto schermo retorico e demagogico, che imprime certa tonalità di principî anche alle parole più banali e volgari).
Queste notazioni, che sanno di teorico ed astratto, volgono a due conclusioni (ma “conclusione” qui non si dà se non per scansione espositiva). L’una è il monito o appello a non sciupare la parola “valore”, che è assai densa di significato e richiami, e andrebbe trattata con parsimonia e sobrietà. È una parola fragile e delicata. Se tutto può diventare valore (da vincoli affettivi ad accordi economici, da incontri occasionali ad alleanze militari ecc.), nulla è più valore, inteso nella sua assoluta intangibilità. L’altra conclusione sta nell’invito a smascherare teorici, profeti, solenni enunciatori, quotidiani utenti, strappando il casto velo di valori e mostrando il fondo oscuro e nascosto di interessi e poteri. Le cose vanno ricondotte alla loro nuda semplicità. Democrazia è parlare e intendersi nei significati più consueti, e non agitare fantasmi e miti indicibili.
Gli uomini di azione, agitati da una “causa” e pronti al sacrificio estremo vanno ammirati e stimati per la schiettezza della fede, la quale non ha bisogno di darsi l’aura di un valore. Basta a se stessa come segno e misura di volontà umana e di slancio morale. La inflazione dei valori li discredita, e li abbassa a merce di consumo acquistabile all’ingrosso in qualsiasi negozio di città.
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