di Marcello Minenna
(EPA)
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Dopo due anni di ammonimenti delle autorità monetarie sulla necessità di impedire un ciclo vizioso tra salari e inflazione stile anni '70, dagli ultimi dati della Bce sta emergendo una situazione diversa: mentre la crescita dei salari è rimasta moderata rispetto all'aumento del tasso di inflazione oltre il 10%, emerge che le pressioni sui prezzi siano arrivate in misura crescente dai profitti delle imprese. Il grafico decompone la variazione percentuale annua del deflatore del Pil (cioè del coefficiente usato per calcolare il Pil reale dal Pil nominale), attribuibile ai principali attori del sistema economico: governo, consumatori, imprese.
Si nota come il picco d'inflazione del 2022 sia in larga misura attribuibile alla crescita dei margini di profitto delle imprese (barre rosse), anche se anche la crescita dei salari svolge un ruolo (barre grigie).In termini meno tecnici, sembra che le imprese abbiano aumentato i prezzi più di quanto sarebbe stato giustificato dall'aumento dei costi, mentre la dinamica dei salari è stata moderata. Questa evidenza è lentamente filtrata fino ai più alti livelli delle istituzioni europee, comparendo nel discorso ufficiale ai mercati del Presidente Lagarde di qualche settimana fa.
In parte l'aspetto politico della distribuzione dei costi da inflazione fa parte del dibattito classico della politica economica. Come era irragionevole puntare il dito sulle legittime richieste salariali dei lavoratori che puntavano al recupero di una parte del reddito reale erosa dallo shock inflattivo, è sterile pensare che la persistenza dell'inflazione sia colpa di un sistema industriale «rapace».
Infatti, l'aumento dei margini lordi di profitto delle imprese è non solo causa, ma anche un effetto contabile automatico derivante della crescita del tasso di inflazione. In letteratura, uno dei motivi per cui le aziende segnalano margini di profitto più elevati in un contesto inflazionistico è che le quote di ammortamento si basano sulle spese in conto capitale di anni precedenti. I principi contabili internazionali riconoscono che alti livelli di inflazione distorcono i profitti dichiarati, ma cercare di adeguarsi all'inflazione può essere complesso.
Ad esempio, se una società ha costruito un impianto per 100 milioni di euro 10 anni fa e lo sta ammortizzando in 20 anni, la quota di ammortamento è di 5 milioni l'anno. Oggi, tuttavia, il costo di costruzione dello stesso impianto potrebbe essere di 200 milioni. Di conseguenza, i profitti dichiarati dalla società sono in realtà sopravvalutati di 5 milioni poiché la vera quota di ammortamento è di 10 milioni. Inoltre i principi contabili impongono di apportare rettifiche ai costi storici solo quando l'inflazione raggiunge il 100% in un periodo di 3 anni.
È necessario essere pragmatici: un impatto maggiore della crescita dei profitti va ad impattare sulla modalità di combattere l'inflazione. La spirale prezzi/salari è una bestia difficile da domare che richiede rialzi ripetuti dei tassi di interesse per ridurre l'impatto della domanda di beni e servizi. Invece, quando i prezzi si gonfiano per la crescita dei profitti, i margini delle imprese tendono poi a scendere naturalmente per effetto della concorrenza, in maniera piuttosto indipendente dai tassi di interesse.
Quindi, se questa è la natura dell'inflazione, qual è il senso di insistere nel rialzo dei tassi, considerati i crescenti problemi di stabilità finanziaria ed il graduale assorbimento dello shock energetico?
Marcello Minenna
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