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Chi ha paura dello schwa cattivo?

di Vittorio Lingiardi e Guido Giovanardi

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Luca Ricolfi ha scritto di un linguaggio inclusivo come “pericolo per la democrazia”

25 novembre 2021
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4' di lettura

Si parla si parla si parla di linguaggio inclusivo. Ci sono le paladine (con qualche paladino) della correttezza politica anche nella lingua e i paladini (con qualche paladina) della libertà (?) di parlare come si vuole, senza bisogno di aggiornare termini, desinenze, espressioni. Urbinati vs Ricolfi, per dire. Ma anche Aspesi vs Chomsky. Ricolfi ha scritto che il linguaggio inclusivo potrebbe costituire addirittura un pericolo per la democrazia. Termini come «operatore ecologico, collaboratore scolastico, diversamente abile, collaboratrice familiare», in sostituzione di «spazzino, bidello, handicappato, donna di servizio» sono additati come ridicoli e ipocriti.

Dibattito

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Proviamo a unirci al dibattito, tutt'altro che ozioso, come dicono alcun* (eccolo l'orribile asterisco, bruttino ma fisicamente simpatico, come un piccolo riccio o un fiocco di neve; ma potevamo anche usare “come dicono alcune e alcuni”, però è più lungo e binario), partendo però da una prospettiva psicologica che finora è mancata al dibattito.

Un elemento fondamentale della pratica clinica è la capacità del/la terapeuta di rispecchiare i vissuti del/la paziente. Se la paziente non si trova riconosciuta e compresa nella mente del terapeuta, sarà difficile stabilire la fiducia necessaria per una buona alleanza terapeutica. Da questo punto di vista, il linguaggio, dentro e fuori la stanza della terapia, è un dispositivo fondamentale per il riconoscimento reciproco. Lo sappiamo dalle persone transgender o non-binarie quanto sia importante usare i pronomi giusti, quanto quell'uso permetta loro di percepire uno spazio sicuro, un luogo dove, a volte per la prima volta, potersi esprimere liberamente ed essere finalmente viste per ciò che sentono di essere.

E allora, facendo un gran salto dall'identità di genere a quella professionale, perché non chiediamo a una “collaboratrice scolastica” se preferisce essere chiamata “bidella”? E, con una forzatura retorica, perché mai preferire “collaboratrice familiare (colf)” a “serva” o “donna di servizio”? Dice: “in America non si può più dire negro, ma la polizia continua ad ammazzarli per strada”.

Massimalismo

La violenza fisica è spesso figlia della violenza verbale. Dall'hate speech all'hate crime.Riconoscere l'altro non significa rinunciare a se stessi, bensì mettersi in dialogo, ascolto, connessione. Significa creare legami. Non riconoscere chi si trova in minoranza, escluso dalle regole di un linguaggio mainstream – i negri, le donne ingegneri, i trans (anche quando sono le trans)] provoca nelle persone “taciute” un senso di squalifica che può fare male. Il misgendering, liquidato come risultato di una «dottrina» inutile e dannosa (suona quasi un richiamo alla “famigerata”, ma inesistente, ideologia gender), bizantinismo d'accademia radical statunitense, è una realtà tutt'altro che astratta, piuttosto una fonte di disagio delle persone con incongruenza di genere, alla base di ritiro sociale, autolesionismo, sentimento depressivo. Perché altrimenti la maggior parte delle università (anche quelle italiane!) avrebbero optato per l'inserimento di “carriere alias” per studenti e studentesse non allineati e non allineate al proprio genere anatomico? (“Carriera alias” è la possibilità di essere identificat* nei documenti per l'Ateneo, per esempio per gli esami e il curriculum accademico, con l'identità di genere a cui ci si sente di appartenere).Rimaniamo stupiti, leggendo Ricolfi, dall'inclusione (questa sì poco generosa) del tema cancel culture in un discorso sul linguaggio inclusivo. Quasi suggerendo che la prima è una conseguenza del secondo. Noi pensiamo che siano due tendenze del tutto diverse. L'obiettivo dell'inclusione è quello di allargare il campo della comunità civile, della partecipazione democratica, della fiducia tra esseri umani. Prevede l'assunzione della responsabilità di ciò che si dice e di come lo si esprime. La cancel culture (di cui ci siamo già occupati, cfr in link), ha obiettivi e effetti opposti.

Come ha scritto Aldo Schiavone in un recente articolo sulla rivista Psiche, il fanatismo della cancel culture cavalca una tendenza che non nasce dalla political correctness ma è frutto di una dinamica più profonda e dominante della nostra contemporaneità, qualcosa che sta modificando radicalmente il nostro rapporto con la storia. Si tratta di una forza globalizzata, legata al primato della tecnologia e del mondo virtuale, orizzontale e immediato, che cerca di strutturare un presente «completamente autosufficiente» che «perde il bisogno di avere un passato», «un continente che si basta da solo, autoreferenziale in ogni componente […]. Il passato è meno di un oggetto desueto, o una terra straniera, come una volta si diceva: appare semplicemente come una cosa superflua».

Usare pronomi giusti, forme plurali rispettose (anche un semplice e ormai sdoganatissimo «buongiorno a tutte e tutti»), riflettere sulle potenzialità creative e dunque inevitabilmente in progress del linguaggio (schwa, asterischi, forme neutre) non cancella niente, ma intensifica la rete degli incontri tra persone e conoscenze. Promuove, in una parola, la cultura. E conferma una cosa che abbiamo sempre saputo: che il linguaggio cambia perché è vivo ed è figlio dei tempi. O qualcuno dà ancora del “voi” al proprio padre, dice della propria zia non sposata che è “ancora signorina”, parla dei cinesi come “musi gialli”, degli avari come “rabbini” e naturalmente dei gay come “ricchioni”? In fondo perché cambiare la lingua, è così antica!


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