di Paolo Bricco
Tronchetti: Pirelli vuole restare leader in un mondo che cambia
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«La prima volta in cui sono entrato in una fabbrica avevo tredici anni. Era il 1961. Mio padre Silvio mi portò a visitare un impianto a Cividate al Piano, vicino a Bergamo. L’azienda si chiamava Minmetal. Produceva tubetti e scatole di alluminio. Mio padre era stato il capo degli acquisti della Falck. Era un uomo di impresa con una cifra internazionale: da dirigente, aveva rappresentato le aziende siderurgiche italiane quando l’Europa era stata rimodulata intorno alla Ceca, la Comunità economica europea del carbone e dell’acciaio. Poi, aveva assecondato la sua vocazione di imprenditore, diventando socio degli stessi Falck. Era un uomo metodico. Mi fece visitare la fabbrica a quell’età, come aveva già fatto con i miei due fratelli maggiori, Bruno e Roberto. Lo stabilimento di Cividate al Piano era la classica fabbrica fordista, con linee produttive molto lunghe, dove però iniziavano a essere organizzate le prime produzioni più piccole, destinate ai singoli marchi dei dentifrici, dei lucida scarpe, dei prodotti estetici».
Marco Tronchetti Provera è seduto, alle due del pomeriggio, nella sala da pranzo della Bicocca degli Arcimboldi, la villa di campagna del Quattrocento della omonima famiglia milanese diventata nel 1918 di proprietà dei Pirelli che, oggi, si trova all’interno del quartier generale della Pirelli. La stanza è chiamata “La Sala delle dame”. Fanciulle in fiore e donne mature adornano le pareti, con una grazia e dei colori chiari che sembrano giocare con la luce che entra dalle finestre. «Quando, dopo il tentativo non riuscito di acquisire la Continental, nel 1992 diventai amministratore delegato e tutti insieme qui in Pirelli iniziammo il turnaround, recuperammo questi dipinti: le pareti erano ricoperte di calce. Fu una piccola, ma importante, scelta simbolica: il senso di appartenenza e il desiderio di futuro sono elementi che vanno tenuti insieme», racconta.
In tavola vengono serviti degli antipasti leggeri e gustosi basati su verdure in pinzimonio e composizioni di carne cruda. Tronchetti ha la soddisfatta tranquillità di chi, a 74 anni, può pensare ai centocinquanta anni di una Pirelli che è riuscita – fra salti di specializzazioni produttive e traumi, difficoltà e successi, stabilità di lungo periodo ed evoluzioni degli assetti azionari (oggi l’azionista di maggioranza con il 37% è ChemChina, seguito dalla Camfin dello stesso Tronchetti con il 14%) – a superare la naturale decadenza biologica di ogni fenomeno storico. Centocinquanta anni non sono un soffio, per una componente essenziale del paesaggio manifatturiero italiano ed europeo, la cui vicenda si è intimamente intrecciata con la vita di Tronchetti Provera. A partire dallo spegnimento di una crisi che, trent’anni fa, era un fuoco che avrebbe potuto diventare un incendio: «Chiudemmo molte società. La cultura Pirelli, che si esprimeva in un grande attaccamento alla azienda, fu cruciale, perché in tanti non lasciarono il gruppo e accettarono di essere ricollocati con un ridimensionamento dei loro ruoli. Fu fondamentale l’appoggio di Mediobanca e della Comit, che ci garantirono non tanto i quattrini, ma la fiducia degli uomini, prima di tutto Enrico Cuccia e Vincenzo Maranghi ma anche Luigi Fausti e Pierfrancesco Saviotti, e in più un ombrello da aprire se il maltempo che gravava sulle nostre teste si fosse trasformato in tempesta. Non ce ne fu bisogno. Infine, funzionò bene la ristrutturazione operata sulle procedure e sulle pratiche aziendali: fino al mio arrivo non era mai stato fatto un bilancio consolidato di gruppo».
Ecco arrivare il risotto alla parmigiana, con gocce di aceto balsamico di Modena. La vita degli uomini e le vicende delle imprese sono fatte anche di parole pronunciate dagli adulti e ascoltate dai bambini: «La prima volta che sentii il nome Pirelli fu il giorno in cui mio zio Nino, che era il direttore generale della Carlo Erba, mi mostrò la sua nuova macchina. Una Ferrari 330 Gt di colore blu. Quando passò a illustrarmi i pneumatici, mi spiegò che erano della Pirelli. E aggiunse: “Per la Ferrari, quelli Pirelli sono i migliori”».
Tronchetti Provera incarna bene il codice milanese, composto da passioni e determinazione, entusiasmi e timidezze, pragmatismo e inattese ingenuità, con un senso di contemporaneità e un desiderio di futuro che hanno radici profonde nei valori e nei simboli, nell’identità e nel divertimento: «Mio padre conosceva il tedesco e parlava il francese e l’inglese. In casa nostra, con lui e con mia madre Giovanna, parlavamo in francese. L’educazione era molto severa, ma anche divertente. A dieci anni assistetti alla mia prima partita di calcio: a San Siro l’Inter giocava con la Spal. Ricordo, pochi anni dopo, l’esordio di Luis Suárez, appena arrivato all’Inter dal Barcellona. Era sera. Fece un lancio millimetrico di quaranta metri che lasciò tutti a bocca aperta. Una emozione fortissima, paragonabile a quella provata, tanti anni dopo, con il Triplete conquistato dal mio amico Massimo Moratti. Ho frequentato l’istituto Zaccaria, dei Padri Barnabiti, dalle elementari al liceo classico. Alle superiori, mi piacevano molto storia e filosofia. Studiavo, per riuscire a cavarmela. Era una scuola di grande rigore. Il mio professore di latino e greco, Luigi Annibaletto, che era un traduttore di Erodoto e di Tucidide, entrava in classe e ci parlava in greco antico. Appartengo a una generazione per la quale il liceo era una sorta di libertà vigilata fino alla maturità. La libertà coincideva poi con l’università. Anche se, in quel modello educativo, erano certe le pene, se uno per esempio non passava gli esami in Bocconi, e non erano affatto sicuri i premi, che di solito si applicavano sulla possibilità o meno di vedere le ragazze e di guidare la macchina», sorride. E ricorda: «Io a diciotto anni iniziai a prendere in prestito la Mini Minor usata di mia mamma».
In tavola vengono serviti arrosto, prosciutto crudo e mozzarella fior di latte. Più tanta verdura. Marco Tronchetti Provera rappresenta un mondo preciso: la borghesia lombarda del Novecento, che non si è atrofizzata intorno all’ossificazione dei nomi delle famiglie che hanno determinato il destino industriale dell’Italia, ma che nel corso del tempo è riuscita a coagulare nuove energie e a selezionare nuovi protagonisti, a curare le ferite e a sanare le sconfitte. Una vitalità biografica fatta di famiglie storiche disponibili ad accogliere uomini nuovi che non avevano lo stigma dello scardinamento, l’ansia dell’uccisione dei padri e l’impulso della sottomissione dei figli, ma che possedevano la cifra della rigenerazione. Il tutto in un meccanismo virtuoso che – come per i Pirelli e la Pirelli, nel caso di Tronchetti Provera – ha apportato sangue manageriale e imprenditoriale nuovo (non incompatibile con quello vecchio), ha permesso negli anni 90 di sperimentare le metamorfosi della globalizzazione (cogliendone ogni felice possibilità), ha consentito di assorbire i traumi (il capitolo Telecom Italia, fra il 2001 e il 2006, rimane un passaggio doloroso) e ha costruito un codice di lungo periodo che, adesso, si misura con il nuovo tempo della storia e gli autunni delle vite dei singoli uomini, definendo le condizioni per nuove primavere.
Nel colloquio con Tronchetti Provera fili rossi appaiono, scompaiono e ricompaiono nel tempo: fra passato, presente e futuro. Ad esempio, il rapporto fra economia e politica: «Milano non ha mai avuto un dominus, una funzione che invece rivestiva a Torino l’Avvocato Agnelli. Alcune grandi personalità, naturalmente, spiccavano: prima di tutto Leopoldo Pirelli, che ebbe una forte proiezione nazionale quando contribuì a modificare la natura di Confindustria con il lavoro di riforma che portò al Rapporto a lui intitolato. A Milano, esisteva un senso democratico delle cose e delle persone. Le gerarchie non erano verticali come a Torino. Torino aveva un rapporto diretto con la politica di Roma. Milano non lo ha mai avuto. Io stesso a 18 anni ero presidente dei Giovani Liberali di Milano ma, già a 23 anni, dopo la laurea in Bocconi, scelsi di dedicarmi solo al lavoro».
In fondo, la storia della Pirelli racconta anche questa incompatibilità italiana – anzi, più milanese che italiana – fra economia e politica. Non solo con Telecom fra 2001 e 2006, ma già nel 1993, quando Tronchetti progettò una operazione su Stet, con i francesi di Alcatel, per la convergenza fra i cavi e le telecomunicazioni: «La ratio della strategia industriale venne osteggiata e affossata dagli interessi della politica e dalla sua incapacità di considerare le tendenze del mercato. Il mondo è cambiato per sempre con l’estensione alle attività civili, dalle attività militari, di internet. Oggi gli Stati Uniti hanno due operatori nelle telecomunicazioni. La Cina ne ha tre. L’Europa ne ha alcune decine».
Viene portata a tavola frutta tagliata a fette: mandaranci, kiwi e mele. Le dame dei dipinti sembrano osservarci, del tutto ignare della politica, dell’economia e di una squadra di calcio messa in campo come un esercito spartano da un allenatore portoghese di nome José Mourinho. Le ragazze e le donne degli affreschi non sanno nulla nemmeno della metamorfosi dell’industria dell’auto, che dai primi anni Duemila è stata investita dalla guida autonoma e dalle nuove tecnologie dell’elettrico, con un impatto significativo anche sui produttori di pneumatici: «Stiamo riempiendo le nostre fabbriche e i nostri laboratori di trentenni specializzati in data sciences e in data analytics. Una volta la frontiera tecnologica era la scienza dei materiali. Ora sono fondamentali la sensoristica, la raccolta e la elaborazione delle informazioni: la ruota è l’unico punto di contatto fra la macchina e il terreno» conclude, mentre beve il caffè, Marco Tronchetti Provera, il ragazzo che a diciotto anni portava gli amici e le ragazze sulla Mini Minor di mamma Giovanna.
Paolo Bricco
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