di Angelo Flaccavento
Maison Margiela AI 23-24
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Ordine e caos: forze che governano il mondo, da sempre, e che in momenti come quello presente si manifestano con flagrante evidenza. La settimana parigina della moda uomo che si è chiusa ieri ha segnato un evidente ritorno a sartorialità e formalità, declinate nelle direzioni opposte dell'ordine vestimentario e dell’apparente disordine.
Se da Sacai tutto è efficiente e pragmatico, ma sottilmente fuori registro come solo riesce a Chitose Abe - che per inciso collabora anche con Moncler facendo a fette i piumini con logica ferrea per renderli oggetti di puro design e desiderio - da Maison Margiela le silhouette sono prima stratificate e poi scorticate, in una immaginifica fusione di couture e sartoria, maschile e femminile, perbene e sedizioso. Ci vuole una mente eccelsa come quella di John Galliano per governare cotanta deregulation senza cadere nella confusione stordente. La collezione, presentata nel bianco clinico e abbacinante dell'ultimo piano della nuova sede, appena inaugurata, della Maison, freme di tutte le ossessioni gallianesche: velette, silhouette anni 50, teatralità, ambiguità, e una certa aria di follia aristocratica in soffitta a tenere tutto insieme. In questo senso ha forse poco di nuovo, ma è comunque trascinante nella sapienza tecnica che la attraversa. Industrializzare cotanta creatività, certo, non è facile, ma è la sfida vera.
Si muove tra decoro curdo e subcultura metropolitana la bella prova di Dilan Lurr per Namacheco, mentre da Ludovic de Saint Sernin semplicità minimal e seduzione scosciata - minigonne per tutti - si incontrano in una ricetta ad alto tasso ormonale che necessità di maggiore rotondità per non apparire elementare.
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