di Andrea Goldstein
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Crostacei e frutti esotici fanno parte del rituale di fine anno della borghesia occidentale, ma anche dei Paesi emergenti. Ma cosa si trova in tavola cambia col tempo, e non è uguale ovunque, un riflesso delle dinamiche complesse dell’economia globale ancor più che dell’idiosincrasia dei gusti.
Cominciamo dalla fine del banchetto.
Un tempo re dell’esotismo, l’ananas è ormai un prodotto troppo banale per sorprendere suocera e ospiti importanti.
Aspettando la stagione del mangustan, è esploso il consumo del mango, raddoppiato in Italia tra il 2007 e il 2016, anche se siamo ancora lontanissimi dai livelli della Germania o della Francia. Dove non solo costa molto di meno (€1,70 per un Kent su Carrefour.fr, contro €8,48 al chilo all’Esselunga, che ne vanta il trasporto via aerea), ma è onnipresente sui marciapiedi, venduto da asiatici (del Bangladesh e di Sri Lanka, generalmente sans papier).
Viene importato illegalmente da Rotterdam, o comprato ai mercati generali di Rungis da grossisti con pochi scrupoli. Senza pagare né Iva né contributi, o rispettare le condizioni d’igiene, e facendo concorrenza ai negozi normali, ma le autorità chiudono un occhio ed evidentemente la qualità di vita del parigino medio migliora, potendo comprare velocemente frutta tornando a casa.
Il mango è nella top ten dei frutti maggiormente prodotti al mondo, e l’offerta è veramente globale: Brasile e Perù d’inverno, India e Pakistan in primavera, Costa d’Avorio e Senegal d’estate (quando però la concorrenza della frutta europea di stagione è più intensa). Il prodotto viaggia su nave, 3 settimane dall’America latina, e all’arrivo è sottoposto a maturazione a 24 gradi per 6 giorni. Una spruzzatina di etilene, un gas innocuo, accelera il processo.
L’Africa occidentale sarebbe la fonte ideale di approvvigionamento, ma quando è iniziato il boom, una decina d’anni fa, era ancora immersa in troppi conflitti per garantire qualità e consegne regolari. Col risultato che sono emersi produttori competitivi anche in Paesi dal costo della manodopera elevato, come le Canarie e Israele.
Per l’aragosta, regina dei crostacei (malgrado l’orrida fine cui è destinata, anche se al Charlotte’s Legendary Lobster Pound di Southwest Harbor la sedano con la cannabis e la carne pare essere più tenera…), la political economy è ancora più complessa.
Anche in questo caso il mercato è globale, ancora di più da quando la Cina è diventato una destinazione importante per gli esportatori dell’Atlantico settentrionale. La concorrenza è all’ultimo colpo di chela tra i canadesi della Nova Scotia e gli americani del Maine, e negli ultimi mesi i primi hanno registrato dei successi importanti.
Dapprima in Europa, grazie all’accordo di libero scambio, il fatidico Ceta - che per fortuna non favorisce solo il Made in Italy, altrimenti i canadesi si scoprirebbero sovranisti -, e alla Brexit - che ha fatto diminuire l’export britannico verso la Ue del 10% nel primo trimestre 2018. Ulteriore terreno hanno conquistato in Cina, dopo che Pechino ha risposto con un aumento delle tariffe sull’aragosta del 25% alla guerra dei dazi. Anzi, i cinesi si sono pure messi a investire nell’industria canadese dell’aragosta, per garantirsi forniture sicure e a prezzi meno volatili. Il senatore del Maine ha criticato Washington per aver innescato la disputa commerciale, ed è stato trionfalmente rieletto a novembre.
Dove i due prodotti si toccano veramente da vicino (oltre che nella cucina del Sake no Hana, lo stellato di Mayfair che propone una suntuosa insalata di aragosta e mango) è nella struttura di mercato relativamente semplice.
I produttori sono indipendenti (nulla a che vedere con le sterminate piantagioni di banane), la commercializzazione è nelle mani di trader specializzati (e non delle major dell’agroalimentare come è il caso del tonno in scatola).
La globalizzazione, insomma, è sempre nel piatto, anche a Natale e a Capodanno, con regole e sorprese. Vale la pena cercare di difendersi con un autarchico piatto di rigatoni al ragù? Poi si scopre che il grano viene probabilmente dal Manitoba e che il marchio di salsa così rassicurante magari l’ha comprato una multinazionale spagnola.
Meglio consolarsi con un bel panettone, con la sua uvetta del Sultano.
Andrea Goldstein
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