di Giuseppe Chiellino
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Nel 2015 gli Stati membri dell’Unione europea avevano 17mila carri armati di 37 modelli diversi. Gli Stati Uniti ne avevano 27.500 ma solo di nove modelli. Stesso discorso per aerei da combattimento e aerei cisterna. In molti Stati Ue la capacità di intervento rapido di jet ed elicotteri d’attacco o per il trasporto di mezzi e truppe era inferiore al 50%. Tra sprechi e duplicazioni, la difesa europea restava ancora tenacemente aggrappata alla vecchia idea di sovranità nazionale.
Poco era cambiato dal fallimento della Ced, la Comunità europea di difesa, nel 1954. Uno studio interno della Commissione, chiesto dall’allora presidente Juncker, metteva impietosamente allo scoperto frammentazioni, implicite debolezze, grandi inefficienze e costi esorbitanti, soprattutto nel confronto con gli Usa. Si stimava che la collaborazione tra Paesi avrebbe generato non solo maggiore efficienza ma anche risparmi per almeno 20 miliardi di euro all’anno.
Già allora la minaccia di Putin (l’invasione della Crimea è del 2014) a cui si era presto aggiunta quella dell’Isis nel cuore delle capitali europee, aveva spinto l’Unione a una profonda riflessione in materia di difesa comune, mettendo in discussione l’opzione Nato-First che delegava tutto all’Alleanza atlantica. Quel dibattito avviato sette anni fa permette oggi alla Ue di non essere del tutto impreparata davanti alla guerra in Ucraina ma soprattutto aiuta a capire l’accelerazione verso una difesa comune.
Nel bilancio pluriennale 2021-2027 venne inserito un capitolo dedicato a difesa e sicurezza con una dote di 13 miliardi, di cui quasi otto per il nuovo Fondo europeo per la difesa per spingere l’integrazione finanziando progetti comuni proposti da consorzi tra aziende di almeno tre Paesi diversi. A questo fondo si aggiunse fuori bilancio lo Strumento europeo per la pace, (European peace facility, Epf) con altri 5 miliardi di euro, che incorporava strumenti preesistenti.
Spiccioli rispetto ai 1.100 miliardi del budget Ue e inferiore alle ambizioni iniziali, ma comunque un segnale politicamente molto rilevante, il primo passo concreto verso una difesa comune che incontra ancora comprensibili resistenze. Non è in gioco solo la tutela dell’industria militare nazionale e la protezione di brevetti e informazioni strategiche: per uno Stato membro si tratta di decidere se mandare i propri soldati a correre il rischio di farsi ammazzare, e non necessariamente per difendere il proprio Paese a cui si è legati da vincoli di identità e di appartenenza.
L’invasione russa in Ucraina ha modificato profondamente queste convinzioni, rafforzando i legami tra i 27, al punto da aprire molto seriamente la discussione sulla possibilità di emettere nuovi eurobond per raccogliere le risorse per la difesa comune. «Un gigante economico e commerciale, per rendere più forte la propria diplomazia e il proprio ruolo nel difendere la pace, deve avere anche una forza di difesa comune» ha detto il commissario all’Economia, Paolo Gentiloni. «Questa sarà l’occasione giusta per arrivare a un obiettivo di cui si parla da più di vent’anni ma che può fare in pochi mesi i passi in avanti che in vent’anni non è riuscito a fare» ha auspicato il commissario ricordando la decisione «storica» della Germania di destinare 100 miliardi al rafforzamento delle proprie forze armate. Sulla stessa linea il premier Mario Draghi: «L’Europa ha davanti investimenti molto significativi nel settore della Difesa, della politica energetica, della salvaguardia dell’ambiente. Sono spese troppo grandi per qualsiasi bilancio nazionale. La guerra in Ucraina ci impone di procedere con la massima urgenza verso risposte davvero europee» ha detto venerdì dopo il vertice con i leader di Spagna, Portogallo e Grecia in vista del prossimo Consiglio europeo. La strada è aperta, anche se non sarà tutta in discesa.
Intanto quel poco che si poteva fare è stato fatto in fretta. Il 28 febbraio, quattro giorni dopo l’attacco russo, la Ue ha potuto attivare, con una rapidità che ha pochi precedenti, lo Strumento europeo per la pace, destinando 500 milioni alle forze armate ucraine «per rafforzare la capacità di resistenza e di difesa dell’integrità territoriale e della sovranità del Paese e per proteggere la popolazione civile». E oggi i ministri degli Esteri dei 27 devono decidere se inviare a Kiev altri 500 milioni di aiuti. Il fondo per la difesa vero e proprio, in cui è entrata anche la Norvegia che non è nella Ue, sta valutando le proposte arrivate a fine dicembre in risposta ai 23 bandi del primo programma, che entro fine anno assegnerà 1,2 miliardi di euro per progetti cooperativi di ricerca e per azioni di sviluppo di prodotti e tecnologie per la difesa (si veda il grafico). Partecipano in vari consorzi tutte le grandi aziende dell’industria militare europea. La firma dei contratti è prevista entro dicembre, nella speranza che vecchi e nuovi dispositivi militari non debbano essere usati. Mai.
Giuseppe Chiellino
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