di Giuseppe Lupo
(Getty Images)
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«Io la superiorità la misuravo in base alle cose»: è questa la frase che Nanni Balestrini fa pronunciare al protagonista di Vogliamo tutto, un romanzo sulla rabbia operaia, che festeggia cinquant’anni di vita nel segno di una vicenda ambientata nella Torino dell’autunno caldo. La frase, nella sua nuda esemplarità, fotografa il modo di pensare di un’Italia umile che intendeva vivere da protagonista gli anni della ricostruzione e del boom in nome di un principio discutibile quanto si voglia dal punto di vista etico e culturale, ma convincente nella sua efficacia: possedere gli oggetti prodotti nelle fabbriche del Nord – elettrodomestici, veicoli a due o a quattro ruote, mobili e accessori per l’arredamento – significava accedere ai gradini di una vita superiore.
Immaginiamo l’abitazione di una famiglia media prima e durante il miracolo economico: passiamo dal deserto tecnologico al comfort di lavatrici, televisori, frigoriferi, cucine all’americana. Immaginiamo una nazione proiettata verso quei beni che venivano considerati status symbol e altro non erano se non la concretizzazione di ciò che fino ad allora era rimasto soltanto un paradigma astratto, cioè il mito della modernità. Non sappiamo se il personaggio di Vogliamo tutto sia mai stato sfiorato dal sospetto di essere proprio lui, con la sua ingenua e darwiniana apologia per la lotta di classe, il fruitore ideale a cui le élite della comunicazione aziendale rivolgevano il loro sguardo di persuasori occulti. Forse non sarebbe stato necessario che ne fosse consapevole perché nel suo “volere tutto” doveva agire il sentimento di rivalsa sulla povertà che solo circondandosi di “cose” poteva essere tenuto a bada. Nulla vieta di ipotizzare che, una volta assunto alla Fiat Mirafiori, egli abbia cominciato a frequentare i grandi magazzini, portandosi a casa quel che nella precedente vita di disoccupato aveva soltanto desiderato: dal rasoio elettrico all’asciugacapelli, dal giradischi al frullatore.
Purtroppo tutto ciò nel romanzo non viene raccontato e l’azione di quest’uomo rimane circoscritta alla protesta e alla lotta condotta di fianco alla catena di montaggio. La narrativa di quegli anni è gremita di personaggi potenzialmente votati al sogno tecnologico, ma di fatto relegati a spettatori passivi (in alcuni casi addirittura a vittime) di tutto quel che veniva fuori dalle fabbriche. Il protagonista de La vita agra (1962) di Luciano Bianciardi trascorre l’intero giorno a battere i tasti della sua Lettera 22, ma di sicuro non ne apprezza l’elegante essenzialità della linea, la briosa immediatezza degli accessori, al contrario vive la macchina per scrivere come strumento di tortura. Marcovaldo, l’operaio narrato da Italo Calvino nel 1963, va spesso al supermarket con la famiglia e riempie fino all’orlo il carrello con ogni tipo di merce, ma poi è costretto ad abbandonarla perché non possiede il denaro per acquistarla. «Gli oggetti del design non sono di per sé oggetti letterari»: scrive Raimonda Riccini in un lucido e prezioso saggio dedicato a Gli oggetti della letteratura Il design tra racconto e immagine (La Scuola 2017). «Essi sembrano appartenere piuttosto al mondo del visivo e, benché siano parte cospicua del nostro intorno quotidiano, sembra che per capirli, amarli, desiderarli, dobbiamo vederli riprodotti sulle pagine dei rotocalchi, nelle pubblicità, sugli schermi del cinema o della televisione». L’analisi coglie nel segno. Nella narrativa non c’è posto per il racconto delle “cose” anche quando si tratta di articoli dalla bellezza indubitabile, segni inequivocabili di un made in Italy in cui artigianalità ed estetica trovano il punto supremo di equilibrio. Consumare, nel verbo ideologico di quegli anni, significava obbedire alla logica padronale.
Perciò gli scrittori si sono guardati bene dal farne un argomento letterario se non per un’occasione di biasimo, come fa Calvino con il suo Marcovaldo, relegando ai registi del cinema il compito di rendere iconica la presenza di un veicolo, per esempio la Vespa, su cui Gregory Peck e Audrey Hepburn imperversano allegramente in Vacanze romane (1953) di William Wyler. E poco conta che un’Italia maleducata e spaccona si manifesti nei modi di Vittorio Gassman mentre sta alla guida della Lancia Aurelia ne Il sorpasso (1962) di Dino Risi. Al di là delle controdeduzioni moralistiche che l’esplosione del consumismo stimola, il film incorona quel modello di automobile a emblema di un’epoca e diventa la risposta indiretta al vocabolario cinematografico statunitense che aveva fatto del racconto on the road il proprio manifesto identitario. C’è qualcosa di anomalo nella reticenza degli intellettuali e le cause possono essere tante, dall’incapacità di comprendere il valore simbolico al non voler fiancheggiare la logica dei consumi. Quel che è certo è che negli anni Sessanta gli oggetti hanno riempito la vita degli italiani, ma non i libri che ne avrebbero dovuto fare il ritratto.
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