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I costi ambientali dell’oligopolio dei porti nordeuropei

di Paolo Costa

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Ogni anno nell'Ue vengono immesse nell'atmosfera 345mila tonnellate di Co2 in più del necessario

18 gennaio 2022
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3' di lettura

Il signor de La Palice, il gentiluomo francese che «un quarto d’ora prima di morire era ancora in vita» sottoscriverebbe di certo l’affermazione che per ridurre l’inquinamento da trasporto delle merci conviene sempre far loro percorrere la via più breve. A parità di servizio reso, il modo più semplice, efficace e rapido di abbattere le emissioni da trasporto sta nel ridurre il totale delle miglia marittime o terrestri percorse dalle merci. Un obiettivo pubblico – la riduzione dell’inquinamento – che non coincide necessariamente con quello privato, perché trasporti e logistica sono servizi venduti in regimi di concorrenza monopolistica, spesso oligopolistica, nei quali la massimizzazione dei profitti può non dipendere dalla minimizzazione del costo. Un “fallimento del mercato” arcinoto che né la Commissione europea né il governo italiano si sono preoccupati di correggere con interventi a difesa della concorrenza.

Neanche nel caso macroscopico dei giorni di navigazione e delle centinaia di chilometri via terra in più fatti percorrere ai traffici tra Europa ed Estremo Oriente – quelli affidati alle catene logistiche globali – istradati attraverso i porti del Mare del Nord anche se destinati all’Italia settentrionale o all’Europa sudorientale. Una situazione che comporta ogni anno lo spreco di almeno 750mila tonnellate di petrolio equivalente e l’emissione di almeno 345mila tonnellate di CO2. Una deviazione dal percorso minimo imposta da un oligopolio marittimo dominato da tre alleanze che coprono l’80% del mercato globale dei traffici container e nove su dieci dei servizi di linea transpacifici o euroasiatici.

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Una situazione fino a ieri accettata come ineluttabile da politiche marittime e portuali statunitensi ed europee, accomodanti quando non conniventi. Un fatto divenuto imbarazzante per una Commissione europea che si considera campione di libera concorrenza e che ha fatto del Green new deal la cifra distintiva del suo operare; ma anche per un ministero italiano che si è voluto chiamare delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili. Imbarazzo oggi reso insopportabile dall’esplosione – innescata dal battito dell’ala di farfalla del primo lockdown da Covid 19 – dei noli marittimi e dei prezzi dei servizi collegati che l’Unctad ha stimato giunti al 243% dei prezzi ante Covid. Aumenti tutti trasferiti sui prezzi pagati dalla manifattura e dai consumatori finali che non potevano non provocare la reazione dei caricatori. Una reazione ascoltata dagli Usa – e questo è il secondo motivo di imbarazzo per l’Ue e i suoi Stati membri – che con l’Ocean shipping reform act del 9 dicembre scorso sono intervenuti a regolare i mercati marittimi e portuali americani a favore della domanda, alla quale hanno dato voce con un National shipper advisory committee, composto da 12 rappresentanti degli importatori e 12 degli esportatori, che assisterà nella regolazione la Federal maritime commission.

Andando alle radici strutturali del problema, gli Stati Uniti con il Bipartisan infrastructure deal di Biden prevedono anche di stanziare 17 miliardi di dollari per migliorare le infrastrutture portuali di ogni tipo. Tra questi le risorse per adeguare agli standard tecnici dettati dalle future dimensioni di meganavi e megacarichi l’accessibilità nautica, le infrastrutture a terra e le connessioni logistiche di porti chiamati a competere con quelli di Los Angeles e Long Beach per eliminare, allargando l’offerta, i colli di bottiglia – e i monopoli – lungo le catene logistiche globali.

Nulla di simile è riscontrabile in Europa. Né a livello regolatorio (dell’Unione o degli Stati membri, nonostante il ritorno di enfasi sulle virtù della concorrenza), né a livello infrastrutturale, dove la proposta di revisione delle reti Ten-T appena lanciata dalla Commissione sottovaluta clamorosamente il fenomeno e il nostro Paese non trova la forza per adeguare ai livelli tecnologici e di capacità richiesti dai traffici globali di domani neanche i sistemi portuali dell’Alto Tirreno e dell’Alto Adriatico. Una impasse che di fatto impedisce ogni alternativa all’oligopolio dei porti del Mare del Nord. I danni da gas serra per l’ambiente in Europa e quelli economici per la manifattura esportatrice italiana sono evidenti e meriterebbero maggior attenzione tanto a Bruxelles quanto a Roma.

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