di Emiliano Sgambato e Manuela Soressi
Plant based: dopo le bevande, nelle vendite si stanno affermando gli hamburger: la componente veg fattura circa 115 milioni e nel fresco pesa circa il 6% sul segmento dei secondi piatti pronti
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Hamburger che non contengono carne, ma anche prodotti che imitano l’aspetto e il gusto del pesce o del formaggio. Senza dimenticare le bevande a base vegetale e le “finte uova”, a base di proteine ricavate da legumi. O gli insetti che diventano snack o farine alimentari. Ma, in un futuro non molto lontano, la vera rivoluzione potrebbe essere la cosiddetta “carne in provetta”, cioè costruita in laboratorio partendo da cellule prelevate da animali.
Il mercato delle proteine alternative è in rapida crescita: Boston Consulting Group stima che nel mondo verranno raggiunti i 290 miliardi di dollari di business entro il 2035 (l’11% del totale del mercato dei cibi proteici contro poco più dell’1% attuale). Ma la quota potrebbe raddoppiare: oltre che dal gradimento dei consumatori, molto dipenderà dalla capacità dell’industria di eguagliare (allo stesso prezzo) il gusto dei prodotti di origine animale e dalle scelte autorizzative e normative – criteri di produzione, controlli, etichette – se non addirittura dall’arrivo di eventuali incentivi ad hoc giustificati dal minor impatto ambientale di queste produzioni (uno dei punti su cui il dibattito è più acceso, con le associazioni di allevatori e agricoltori che respingono gli attacchi alla zootecnia sul fronte della sostenibilità e difendono il diverso valore nutrizionalle dei prodotti naturali).
Per ora la direzione intrapresa in Europa non sembra essere univoca: se è vietato chiamare latte, yogurt e formaggio prodotti che di latte non ne contengono, una decisione di natura differente è stata presa nel 2020: possono continuare a esistere hamburger, polpette, bistecche, salsicce o nuggets fatti senza la carne.
In un contesto mondiale dove la crescita di domanda di proteine segue quella della popolazione, l’industria alimentare sta intanto cercando strade alternative. Attirando ricchi investimenti: secondo un approfondimento di Milano Investment Partners Sgr su dati Dealroom, solo nel venture capital si è passati da poco più di 600 milioni di dollari del 2018 ai 4,5 miliardi del 2021.
in crescita rapida Ma quale e quanto “plant based” si vende oggi in Italia e a chi? Le proposte da più tempo sul mercato sono nate soprattutto per soddisfare la domanda di chi non vuole consumare prodotti di origine animale (vegetariani e vegani), o vuole consumarne meno a causa di intolleranze e scelte dietetiche. Ad esempio le bevande a base di soia che si pongono come alternativa al latte o gli hamburger che hanno solo la forma di quelli di carne, ma che sono composti da un insieme di ingredienti vegetali dal contenuto nutrizionale più o meno paragonabile all’originale, almeno per quel che riguarda le proteine (l’apporto alimentare complessivo è questione ben più complicata).
L’ultima generazione di prodotti cerca invece di imitare anche aspetto, consistenza e – soprattutto – gusto dei cibi che intendono sostituire (Beyond Meat e Impossible Foods sono solo i due casi più noti). Sono offerti oramai a prezzi abbastanza simili a quelli dei “concorrenti”. In questo caso il target (almeno per ora) è costituito soprattutto dai cosiddetti flexitariani, cioè chi, pur restando consumatore di carne, uova e latticini, considera più salutare e più sostenibile aumentare la quota di apporto vegetale nella propria dieta. Sul fronte dei detrattori c’è chi invece sottolinea come si tratti spesso di alimenti molto processati industrialmente e arricchiti di aromi e altri additivi.
Durante la pandemia le vendite di questi prodotti nella grande distribuzione sono aumentate del 17% arrivando a 458 milioni di euro (nel periodo tra settembre 2020 e settembre 2021, fonte Iri). Un giro d’affari pari a circa lo 0,6% di tutto l’alimentare venduto in Gdo e di cui circa un decimo è dovuto all’ultima generazione di prodotti plant based.
Il carrello “alternativo” degli italiani comprende soprattutto bevande (scelte dal 35% delle famiglie secondo Gfk) e prodotti di gastronomia (32%), come hamburger e finger food. E poi tra freschi, surgelati e confezionato ci sono alternative ai latticini e al pollo, salumi, dessert, e sughi: tutte categorie in crescita annua, con fatturati in aumento anche del 30 per cento. Le vendite di bevande vegetali valgono circa 220 milioni di euro, poco più del’11% di quelle complessive di latte in Gdo. Più indietro burger e crocchette: la componente “veg” fattura circa 115 milioni e solo nel fresco pesa il 6% sui secondi piatti pronti nel loro complesso. L’Italia ha guadagnato così la quarta posizione in Europa per giro d’affari complessivo nel plant based. Una performance guidata sia dall’aumento degli acquisti sia dalla crescita degli shopper, rileva Gfk, secondo cui la metà delle famiglie italiane compra prodotti a base vegetale, con una frequenza di circa dieci volte l’anno.
L’ultima frontiera, infine, sono i “cell based product” che attraverso tecniche di ingegneria molecolare partono da cellule naturali per ottenere “carne coltivata in laboratorio”, ma anche ad esempio pesce o uova. La tecnica non è nuova (i primi esperimenti sono di quasi dieci anni fa), ma restano da sciogliere i nodi del costo di produzione, ancora troppo elevato, e delle autorizzazioni al commercio (Singapore è l’unico luogo al mondo dove è già possibile mangiare questi prodotti). Tuttavia non sembra molto lontano il momento in cui la produzione potrà diventare industriale.
Ne è certo, tra gli altri, un ecologista convinto come Leonardo Di Caprio, che pare abbia investito in due delle società più attive in questo campo come l’olandese Mosa Meat e l’israeliana Aleph Farms (tra le altre realtà più note ci sono Memphis Meat e Eat Just, niente a che vedere con Just Eat).
Emiliano Sgambato
redattore
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