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Dal Lussemburgo all’Estonia: pochi abitanti, migliaia di società fantasma

di R. Galullo e A. Mincuzzi

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(Ronald - stock.adobe.com)

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30 ottobre 2018
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4' di lettura

Cambiando l'ordine dei nomi il prodotto non cambia e dunque, che siano “anonime”, “bucalettere” o “speciali” – tutte, comunque, definite shell company, letteralmente “società conchiglia” – possono rappresentare un veicolo per evasione, elusione, corruzione, lavoro nero o, ancor peggio, riciclaggio. Nessuno mette in dubbio che queste società possano avere scopi legali e legittimi come facilitare l'asse ereditario, le fusioni, joint venture o le pianificazioni strategiche ma il loro ormai frequente uso fuori dalle regole ha «impatti economici, sociali e politici» rilevanti sull'Unione europea.

A denunciarlo è uno studio appena dato alla luce dal Parlamento europeo che, a pochi mesi dal precedente rapporto di marzo, mette sotto la lente sempre i soliti Paesi – a cominciare da Lussemburgo, Belgio, Olanda, Irlanda, Malta, Cipro e Ungheria ai quali si aggiunge il Regno Unito che però sta per lasciare l'Unione –– additati di politiche fiscali aggressive e strategie di attrazione degli investimenti che non guardano troppo per il sottile.

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Società in mano straniera
Lo studio evidenzia che nessuno conosce esattamente il numero di “shell companies” presenti in Europa ma proprio il Regno Unito svetta nella classifica delle società di proprietà straniera negli Stati membri, considerato come il primo indicatore del ricorso a uno strumento che presenta molti lati oscuri. La Brexit toglierà agli inglesi questo primato? Difficile da credere, anzi.
Il Parlamento europeo stima che ci siano approssimativamente 420mila imprese a prevalente capitale straniero nei singoli Stati europei e che più della metà – per l'esattezza 227mila – siano registrate nel Regno Unito. Le altre sono divise tra Estonia (33.500), Romania (30mila), Francia (27mila), Slovacchia (26.600) e agli altri 23 Stati membri (75mila).

Questi dati colpiscono soprattutto quando vengo messi a confronto con la popolazione residente. Ebbene si scopre che in Estonia c'è un'impresa a capitale prevalentemente straniero ogni 30 abitanti. Una situazione paradossale solo che si pensi che in un Paese altamente industrializzato come la Francia questo rapporto sale a un'impresa ogni 2.415 abitanti. Alto e anomalo risulta anche il dato del Regno Unito dove la pura statistica dà un'impresa controllata dall'estero ogni 568 residenti. Su questa percentuale incide però moltissimo proprio la presenza delle shell companies.

Gli investimenti esteri diretti
È il secondo indicatore – la massa di investimenti diretti esteri – che svela plasticamente la presenza di una pianificazione fiscale aggressiva che, seppur lecita. distorce la concorrenza tra Stati membri di una stessa Unione europea. Nei Paesi Bassi lo stock di investimenti nel 2015 (ultimo anno utile di confronto omogeneo) è stato di 3.500 miliardi di dollari. Il Lussemburgo, che segue a ruota, ha attratto nello stesso periodo tre mila miliardi di dollari e poi via via Regno Unito, Irlanda, Germania, Francia, Spagna, Belgio e Italia, dove la quota è stata abbondantemente sotto i 500 miliardi di dollari investiti dall'estero.

Proprio il Lussemburgo offre il destro per una riflessione ai ricercatori (Ivana Kiendl Kristo e Elodie Thirion) ai quali ha fatto ricorso il Parlamento europeo. In questo piccolo Paese gli investimenti esteri sono oltre 57 volte il prodotto interno lordo, vale a dire 5.766% del pil . A Malta 17 volte in più, cioè il 1.732% il pil a Cipro nove (905%9 , in Olanda cinque (535%) e in Irlanda tre (311%). In Ungheria 1,6 volte, cioè 161% e in Belgio è leggermente superiore al Pil (102%).

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Il ruolo delle multinazionali
A fare la parte del leone, ovviamente, sono le multinazionali che spesso e volentieri ricorrono a società di scopo “speciali” che, si legge testualmente nello studio, «non sembrano voler ricorrere a reali investimenti in determinati Paesi ma piuttosto a flussi finanziari di transito». In altre parole, Stati-veicoli per società di scopo. Maestri, da questo punto di vista, sono Paesi come Malta (dove il rispettivamente il 96% degli investimenti diretti in entrata e il 98% di quelli in uscita passa attraverso società di scopo), il Lussemburgo (95% in ambo le direzioni) e Olanda (rispettivamente con quote dell'80% e del 73%).

E per chi non avesse capito il ruolo delle multinazionali in questo particolare tipo di “shell company” ecco che il rapporto fuga ogni dubbio, riportando alla luce quanto cristallizzato dall'Ocse già nel 2008. «Queste società speciali di scopo – si legge nello studio – si costituiscono e si mantengono a costi relativamente bassi ma sono in grado di offrire vantaggi fiscali, regolamentari e di riservatezza».

Non è dunque un caso se la storia contemporanea ci ricorda che in Lussemburgo i patti tra Governo e multinazionali in primis hanno garantito una tassazione prossima allo zero e se è di queste settimane la notizia relativa alla pressioni che i colossi mondiali presenti in Olanda hanno esercitato sul governo locale al fine di abolire la tassazione sui dividendi. La cancellazione non è avvenuta (anche grazie alle proteste dei dipendenti pubblici e delle forze dell'ordine) ma in cambio tutte le imprese hanno portato a casa un taglio alle imposte.

La forbice nei profitti
L'ultimo indicatore considerato dal Parlamento europeo è quello della differenza di profittabilità tra società straniere e nazionali. I dati dimostrano come in alcuni Paesi la profittabilità delle società a capitale prevalentemente estero sia sistematicamente più alta rispetto a quelle locali. Questo fenomeno paradossale si spiega con il fatto che molte di questa società è in realtà priva di strutture produttive e rappresenta solo un contenitore attraverso il qual far transitare ingenti flussi finanziari.

Per curiosità si riporta il dato del Porto Rico, nel quale i profitti societari ante imposte in relazione alla retribuzione dei dipendenti sono del 1.675% ma è nella Ue che il gap appare in tutta la sua evidenza. In Irlanda i profitti per le imprese straniere, sempre con la stesso indicatore, sono dell'800% rispetto 68% delle imprese locali, in Lussemburgo del 461% (40% per le imprese locali) e in Olanda del 115% (41% per le imprese locali).

In Italia si arriva al punto più basso, secondo il quale il profitto delle imprese straniere è del 16% e quello delle imprese locali è del 48%. Proporzioni simili a quelle tedesche dove le percentuali sono del 18% per le straniere e del 52% per quelle nazionali. I dati relativi a questi due Paesi, che detengono la più alta percentuale di aziende manifatturiere in Europa, rendono ancor più evidente l'anomalia dei piccoli paradisi fiscali quali Lussemburgo, Malta, Cipro e Olanda.

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