di Giulia Crivelli e Silvia Pieraccini
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Un’immagine può valere più di mille parole o lunghi ragionamenti. È il caso della fotografia scattata a New York il 20 dicembre scorso, al debutto di Zegna alla Borsa americana: il ceo Gildo Zegna e Andrea Bonomi, socio di minoranza nell’avventura al Nyse del gruppo italiano leader nell’abbigliamento maschile di fascia alta (solo pochi anni fa si sarebbe detto “formale”) erano sorridenti e... senza cravatta. Un particolare notato da molti, non perché stridesse nella solennità (finanziaria) dell’evento, ma perché segnale di autentico cambiamento.
Il made in Italy e le sue eccellenze – Zegna è tra queste – hanno saputo cogliere i mutamenti in atto nel mondo maschile nelle scelte di abbigliamento, legate in parte a nuove abitudini di vita e di lavoro. Non parliamo di tendenze o fenomeni di stagione, ma di onde lunghe, quasi maree, che non possono essere ostacolate e nemmeno solo seguite: vanno cavalcate, proprio come fanno i grandi surfisti, apparentemente in precario equilibrio, in realtà a loro agio e sicuri della loro tavola. Le aziende italiane della moda maschile – dove stanno avvenendo cambiamenti assai più rilevanti di quelli, quasi prevedibili perché ciclici, della moda femminile – hanno saputo fare questo: affinare e adattare l’approccio stilistico ma anche manifatturiero, distributivo e ovviamente digitale, ai cambiamenti di gusto e alle condizioni economiche.
Lo hanno fatto grazie al Dna, al radicamento sul territorio, alla cultura del prodotto e, certo, a creatività e coraggio. Hanno resistito all’uragano del Covid e vedono la fine del tunnel, varianti del virus e incognite geopolitiche permettendo. I dati economici confermano la ripresa vista nel 2021, trainata dall’export, e lo stesso vale per le strategie delle aziende presenti – fisicamente o digitalmente – al Pitti che si apre oggi a Firenze e poi alla settimana della moda in programma a Milano da venerdì 14.
Il convitato di pietra è la Cina, già oggi primo mercato al mondo per i beni di alta gamma, abbigliamento maschile compreso: è dall’inizio del 2020 che buyer (e turisti) cinesi sono assenti dall’Italia ed è possibile che nulla cambi nel 2022. Grazie al retail locale e alle piattaforme web le vendite dei grandi marchi hanno continuato a crescere, ma la pandemia non è l’unica incognita, come spiega un italiano che conosce bene il mercato cinese, Jacopo Mazzei, presidente di Rdm Asia. La società è parte del gruppo Fingen, che vende marchi di alta gamma in sette designer outlet a insegna Florentia Village presenti in altrettante città della Cina, per un totale di 1.200 negozi di marchi globali.
Mazzei spiega quanto sia difficile fare previsioni: il 2021 è stato brillante fino a luglio-agosto, poi ha rallentato. Ora la Cina mostra diverse difficoltà, dai default immobiliari ai focolai Covid, dal calo di investimenti in infrastrutture alla disoccupazione e ai consumi in contrazione. «Sicuramente in Cina c’è la più alta crescita al mondo della classe media e ci sono ancora spazi per crescere sia per il lusso sia per l’abbigliamento sportivo – sottolinea il presidente di Rdm Asia –. Questo segmento sta esplodendo anche grazie alle imminenti Olimpiadi invernali, ma il Paese è in una fase delicata. Tanto che sono appena state varate misure per incentivare gli investimenti stranieri».
Il sorpasso della Cina sugli Stati Uniti come prima economia mondiale, previsto da alcuni per il 2021, è rinviato. Lo stesso vale, purtroppo, per la fine della pandemia. Non c’è invece all’orizzonte alcun sorpasso possibile per la filiera italiana della moda, maschile e non solo. Di una cosa possono e devono essere certe le aziende del nostro Paese: il made in Italy sarà protagonista anche della nuova normalità, quando finalmente arriverà.
Giulia Crivelli
fashion editor
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