Norme e Tributi
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Trascritto in Italia il divorzio iraniano anche se può chiederlo solo l’uomo

di Patrizia Maciocchi

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(Graham - stock.adobe.com)

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Per i giudici l’istituto, benché non sia in linea con la parità di genere, non può essere assimilato al ripudio. Sono poi rispettati il diritto di difesa e il principio dell’ordine pubblico

8 marzo 2023
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3' di lettura

Via libera alla trascrizione in Italia del divorzio iraniano. Un istituto che, malgrado non in linea con la parità di genere visto che la scelta di mettere fine al matrimonio può essere solo del marito, non può comunque essere equiparato al ripudio islamico. Né si possono considerare violati i principi fondamentali dell’ordinamento italiano in ambito processuale: diritto di difesa e ordine pubblico. La Corte di cassazione respinge così il ricorso di una cittadina iraniana residente in Italia, che si opponeva al riconoscimento nel nostro paese della sentenza di divorzio - pronunciata dal Tribunale di Theran - dal marito anche lui iraniano, in possesso anche della cittadinanza italiana. La questione sul tappeto è stata molto controversa e risolta dopo un appello bis frutto del precedente annullamento della Cassazione. La Corte d’Appello, in prima battura, aveva infatti accolto il ricorso della moglie.

Il Codice iraniano

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Per i giudici territoriali il divorzio, per come regolato dalle norme iraniane (articolo 1133 del codice locale) ha un carattere unilaterale ed arbitrario che non si discosta dall'istituto del ripudio. E questo perché riconosce una condizione di privilegio del marito rispetto alla moglie «posto che il primo può divorziare dalla seconda senza che questa ne possa “paralizzare” la volontà». Un modello inconciliabile con le «regole inderogabili e fondamentali immanenti ai più importanti istituti giuridici nazionali». Il verdetto non era stato condiviso dalla Cassazione, che lo aveva annullato con rinvio. Ad avviso della Suprema corte i giudici di appello non si erano limitati, come imposto in un giudizio di delibazione, a valutare gli effetti sull’ordine pubblico interno del riconoscimento della sentenza straniera, ma erano entrati nel merito considerando la correttezza o meno del rapporto giuridico e dell’ordinamento straniero.

Il divorzio Rojee

Errore che la Corte territoriale non aveva ripetuto affermando la legittimità della trascrizione, con una sentenza che la donna torna a contestare, in Cassazione. Senza successo l’ex moglie ha sostenuto l’equiparazione del divorzio iraniano «Rojee» al ripudio, e quindi la sua contrarietà all’ordine pubblico, rispetto al principio fondamentale di uguaglianza tra i coniugi e di non discriminazione contro le donne. Sottolineata poi anche la disparità di trattamento processuale: mancato ascolto del figlio e minor valore per la legge iraniana della testimonianza della donna. Per la Cassazione però il diritto di difesa della cittadina iraniana, di professione farmacista e di elevato ceto sociale, era stato rispettato. Si era costituita nei tre gradi di giudizio con l’assistenza di un difensore di fiducia, aveva visto riconosciute le proprie richiesta economiche e conservato la dote nunziale, pari a 200 mila euro. Una situazione diversa da quella alla base di un precedente giudizio (sentenza 16804/2020), con il quale i giudici di legittimità avevano negato la trascrizione nei registri di stato civile della Talaq: il ripudio unilaterale del marito. In quell’occasione la moglie non aveva potuto partecipare alla procedura, e non aveva neppure ricevuto la notifica della seconda fase del procedimento teso all’accertamento dell’irrevocabilità del ripudio, che si era svolto in assenza.

Differenze con la Talaq

Allora l’Ufficio del massimario della Cassazione aveva sottolineato che non esiste un «diritto islamico unitario» nel diritto di famiglia, ma ci sono notevoli differenze tra i vari Stati, sia per quanto riguarda le procedure da seguire, sia rispetto agli organi deputati ad esprimersi. Per questo il giudizio sulla compatibilità con l’ordine pubblico di un divorzio pronunciato in un paese in cui l’ordinamento giuridico sia ispirato all’Islam, «va effettuato con cautela valutando caso per caso». La dottrina raccomanda, ad esempio, la necessità di assicurare che la donna non sia danneggiata dal mancato riconoscimento del ripudio, nel caso sia lei stessa a volerlo o abbia beneficiato di una protezione economica sufficiente. Nel 2005, ricorda la Suprema corte, l’Istitut de droit international, ha adottato una risoluzione per avvisare che il no al riconoscimento è possibile solo nel caso in cui la moglie sia cittadina dello Stato in cui è richiesto, o abitualmente residente. Si è poi «parlato di ordine pubblico cosiddetto attenuato, volendosi fare riferimento al necessario arretramento del concetto stesso di fronte a status e rapporti legittimamente già insorti e consolidatisi nell’ambito dell’ordinamento straniero con cui i soggetti presentano significativi elementi di contatto».

I contrasti nella giurisprudenza

Nel caso esaminato è stata esclusa una violazione del diritto di difesa nell’ordinamento di Theran. Quanto al contrasto con l’ordine pubblico per la violazione dei valori universali della parità di genere e del principio di non discriminazione, anche all’interno del matrimonio, resta indimostrato, anche per l’impossibilità di equiparare il divorzio iraniano al ripudio. La Suprema corte risparmia alla ricorrente la condanna alle spese per responsabilità aggravata, chiesta dall’ex marito. Domanda che «non può essere accolta, attesa la complessità delle questioni di diritto - si legge nella sentenza - attinente alla sfera dei diritti personalissimi, sottese alla presente controversia, non ancora neppure pienamente risolte a livello giurisprudenziale e dottrinario».

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