di Enrico Marro
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I “minatori” del Bitcoin non devono scendere nelle viscere della terra spaccandosi la schiena per estrarre metalli o carbone. A loro basta avere un apparecchio hardware che “estrae” la criptovaluta lavorando sette giorni su sette, ventiquattr’ore al giorno. È infatti possibile ottenere Bitcoin facendo eseguire dei calcoli matematici al processore del computer oppure a quello della scheda grafica: quest’attività viene chiamata “mining” e la sua complessità aumenta con il passare del tempo. La creazione delle criptovalute richiede quindi un’elevata potenza di calcolo e di conseguenza un alto dispendio energetico, che rende il mining spesso infruttuoso per i singoli operatori. Secondo alcune stime l’elettricità complessiva utilizzata annualmente per produrre Bitcoin supera infatti i 32 terawatt, quindi ben superiore ai consumi di un Paese come l’Irlanda (25 terawatt l’anno).
Che cos’è il mining. I nuovi bitcoin vengono appunto generati da un processo competitivo e decentralizzato chiamato “mining”, dove i privati vengono premiati per i servizi che hanno svolto: si tratta di un sistema di consenso distribuito, utilizzato per confermare le transazioni, includendole nella blockchain. I “minatori” quindi elaborano le transizioni utilizzando hardware specializzati, e in cambio raccolgono nuovi Bitcoin. Il protocollo è progettato in modo tale che i nuovi Bitcoin siano creati a una velocità standard, a un tasso descrescente e prevedibile, il che rende l’”estrazione” un’attività molto competitiva. Quanti più “minatori” si uniscono alla rete tanto diventa più difficile fare profitti.
I “mining pool”. Inizialmente i singoli operatori erano in grado di svolgere questa attività da soli, ma oggi l’estrazione dei Bitcoin richiede capacità di calcolo così avanzate e complesse che solo gruppi di operatori che uniscono i loro potenti sistemi hardware, chiamati “mining pools”, ce la possono fare. I Bitcoin Mining Pool sono insomma dei servizi che permettono di utilizzare la tecnologia del calcolo distribuito per ottenere Bitcoin. Iscrivendosi a uno di essi e utilizzando appositi client è possibile dividere il carico di lavoro del mining (e di conseguenza le criptovalute “estratte” dalla rete) con i computer di altri utenti collegati in remoto, pagando naturalmente delle commissioni.
Ma ci si guadagna? Alcune aziende hanno immesso sul mercato gli Asic Bitcoin Miner, computer per generare Bitcoin che consumano meno energia rispetto ai Pc tradizionali. Attenzione però a non giocare al risparmio, perché alcuni “ASIC” economici presto si rivelano di scarsa qualità riducendo le loro prestazioni: un buon apparecchio oggi non costa meno di duemila dollari. Per capire quanto si guadagna dall’”estrazione” bisogna poi mettere assieme diverse variabili: la velocità di calcolo (detta anche hash rate), il numero di Bitcoin “regalati” per ogni block (oggi 12,5), il costo dell’energia (in Italia notoriamente alto), le commissioni dei “mining pool” e soprattutto il valore della criptovaluta in dollari.
Facciamo due calcoli. Ipotizziamo di mettere in piedi un business di “estrazione”, comprando un buon Asic Bitcoin Miner da duemila dollari (per esempio un AntimerS9) con un hash rate di 13 TH/s, stimando commissioni dei mining pool al 2%, aggiungendo il costo dell’energia in Italia e l’attuale prezzo del Bitcoin (circa 19mila dollari). Il risultato? Brutte notizie: il nostro business perderebbe quasi 17mila euro l’anno, con un “rosso” di oltre 1440 euro al mese, nonostante le quotazioni stellari raggiunte dalla più famosa delle criptovalute.
La morale? Guadagnare “estraendo” Bitcoin oggi non è per niente facile, soprattutto se il costo dell’energia è alto come quello italiano. Meglio continuare a vedere il Bitcoin per quello che è: un asset finanziario molto volatile e speculativo. E pensarci due volte prima di investire tutti i propri risparmi in criptovalute.
Enrico Marro
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