di Monica D'Ascenzo
(Ansa)
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«È fondamentale nello sviluppo della persona che diventerai, quello che respiri dalla nascita e durante la crescita. Io vengo dall’Emilia Romagna, regione in cui l’emancipazione della donna è un passo avanti rispetto alla media italiana anche per la storia della nostra regione. E questo cre4do abbia fatto la differenza nelle scelte che ho fatto». Milena Bertolini, commissaria tecnica della Nazionale italiana femminile di calcio, ha un modo pacato ma molto risoluto di esprimersi,a cnhe quando parla del proprio passato.
Nata nel 1966 e cresciuta a Correggio, Bertolini ha una storia familiare che è uno dei milioni di fili che hanno fatto l'intreccio della storia d'Italia. «Ai tempi della seconda guerra mondiale mio nonno Emilio era dei partigiani e viveva in mezzo ai boschi. A casa era sua moglie Adalgisa, mia nonna paterna, a condurre la famiglia, anche nelle scelte che erano tipiche maschile a quei tempi. Vivevano in montagna sull’Appennino tosco emiliano e decisero ad un certo punto di acquistare terreni a Correggio e andò lei a trattare. Mio padre è cresciuto con una madre di questo tipo e aveva lei come punto di riferimento. Quando respiri queste cose in famiglia ti formi come persona» racconta.
In famiglia nasce anche la formazione politica della ct. In quella Correggio che dista solo 40 minuti dalla Brescello di Peppone e Don Camillo. «Nonno raccontava a me e ai miei cugini, con cui abitavamo tutti insieme in una casa contadina, la sua storia. La sua passione politica coinvolgeva tutti in famiglia in particolare in occasione delle elezioni quando c’erano comizi e le notizie e i risultati arrivavano attraverso una staffette dei suoi amici» ricorda Bertolini, che prosegue: «Lo zio Vincenzo, poi, è stato segretario del Partito Comunista di Reggio Emilia, quando ci fu il famoso sorpasso nel 1984 e Reggio fu la città in cui il Pc prese più voti. La donna di mio zio era la figlia di Nicolini il sindaco di Correggio e anche lei faceva politica. Un altro esempio di donna fuori dagli stereotipi del tempo».
Bertolini è così cresciuta «senza il concetto di classe, nel rispetto della dignità di tutte le persone, nell'esempio del fare insieme e della cooperazione». Insegnamenti che ha portato con sé come la consapevolezza che «i risultati si ottengono attraverso il lavoro. In Emilia andavo già ad aiutare in campagna d’estate a lavorare e ho imparato che per ottenere qualcosa nella vita occorre lavorare duro, sacrificio, impegno».
La formazione sportiva è andata di pari passo con quella personale. «Da bambina mi piaceva fare sport. Dove abitavo io in campagna al campo da calcio erano tutti maschi e ho iniziato a giocare con loro quando avevo sette anni. Passavamo i pomeriggi a fare partite di calcio con i vicini di casa. Poi attorno ai miei 13 anni il marito della sorella di mio padre, che conosceva un allenatore di una squadra femminile di Correggio, mi portò lì. Eravamo proprio agli inizi, era il 1979, e la squadra era composta da ragazze di varie età: io era la più giovane e la più grande aveva 31 anni. Giocavamo nel campionato Csi, poi seppi che a Reggio c’era squadra di serie B» racconta Bertolini, che prosegue: «Mamma Eves e papà Virgilio mi ripetevano che l’importante era studiare e finire la scuola. A 13 anni sapevo già che volevo fare scienze motorie, ma alle superiori scelsi una scuola, che nel caso avessi cambiato idea, mi avrebbe preparato a un mestiere e mi iscrissi a geometra. Poi , comunque, frequentai l’Isef». Perché Bertolini già sapeva che avrebbe voluto fare dello sport la sua professione.
Nel 1984 arriva l'occasione di giocare a Reggio Emilia con l'allora A.C.F. Reggiana, che militava nel campionato di Serie B. «Gli anni alla Reggiana sono cresciuta con delle amiche e delle compagne di squadra. Alla terza stagione dopo il mio arrivo abbiamo conquistato la promozione in serie A». Una promozione storica per la squadra che lascia per trasferirsi a Prato, ma solo per un anno. Al ritorno a Reggio la vittoria dello scudetto con 12 punti di vantaggio sulla seconda. Poi tante le squadre in cui gioca dal Bologna al Monza, dal Modena al Pisa, ma ricorda con particolare calore l'anno a Sassari: «L’anno in Sardegna mi ha fatto scoprire la bellezza dei sardi, sapere cosa significa il vero mare. A livello di scoperte è stato il più significativo».
Il debutto in Nazionale a 24 anni avviene in una partita rimasta epica nella storia delle azzurre. L'Italia affrontò l'Inghilterra in un'amichevole giocata per la prima volta nello stadio di Wembley davanti a ottantamila spettatori. La Nazionale italiana uscì dal campo con la vittoria di 4-1 grazie alla poker di gol segnati da Carolina Morace. Di quel giorno Bertolini ricorda: «Siamo entrate in spogliatoi enormi che solo il mese prima erano stati il camerino di Madonna in occasione del suo concerto. Io venivo dagli spogliatoi delle parrocchie, che magari per terra avevano anche la moquette. La nostra partita era prima della finale di coppa d’Inghilterra e lo stadio si è riempito» sottolinea Bertolini, tornando poi con la memoria ad un altro debutto in Nazionale, quello da allenatrice: «Il debutto come calciatrice è stato più inconsapevole, mentre il debutto come allenatrice ai Mondiali è stato molto vissuto dentro perché era il risultato di anni di lavoro e sacrificio». Anni che l'anno vista allenare e allo stesso tempo lavorare: «Di giorno lavoravo in una cooperativa di progettazione ambientale e la sera mi allenavo, poi ho iniziato ad allenare le giovanili e a fare l’opinionista sportiva» racconta, aggiungendo: «Ho allenato dai bambini di 5 anni a una prima squadra in eccellenza. Sono arrivata ad allenare la Nazionale nel 2017 a 51 anni, dopo 30 anni di gavetta».
Un traguardo importante in un momento di forte cambiamento per il calcio femminile italiano. Era arrivato il momento di far fare un salto di qualità al movimento e la Nazionale ha fatto la sua parte. «Quando alleni un club hai una quotidianità, in Nazionale non ce l’hai. La difficoltà sta nel fare sintesi delle loro qualità e trovare la soluzione giusta per farle rendere al massimo avendo poco tempo» sottolinea Bertolini, che aggiunge: «Il senso di responsabilità in Nazionale è molto più alto perché rappresenti il Paese e in questo momento rappresenti il movimento del calcio femminile: la nazionale non fa bene se i club non lavorano bene e se la nazionale fa bene i club non guadagnano. È un ciclo virtuoso».
Un ciclo virtuoso che ha avuto un'accelerazione con la qualificazione dell'Italia ai mondiali di Francia 2019 dopo vent'anni di assenza e al posizionamento delle azzurre fra le otto squadre più forti al mondo. Ma oltre ai risultati sul campo, hanno conquistato altri aspetti di questa squadra: «La squadra ha espresso un bel calcio, fatto di tecnica, armonia ed eleganza, impregnato di valori sportivi che ti toccano l’anima. Le nostre caratteristiche erano non mollare su ogni pallone, sacrificio, vivere insieme le cose. Questo ha colpito chi ci ha seguito. Il gruppo era fatto da atlete che sono cresciute assieme e avevano un obiettivo comune: farsi conoscere, far valere i propri diritti e portarsi dietro il loro mondo, quello che avevano vissuto. Questa è la forza che hanno avuto. Per loro partecipare ai mondiali era un sogno, felicità allo stato puro: gli stadi pieni, il tifo, sentirsi considerate come atlete, sentirsi valorizzate, seguite dai media» ricorda Bertolini che aggiunge: «Ci vuole molta passione e bisogna credere in quello che si fa. Eravamo tutte proiettate verso lo stesso obiettivo. Il bene comune era al primo posto, in questo modo si ottiene di più della somma delle individualità».
E il post mondiali? «Le prime partite di club hanno creato qualche scompenso, ma noi veniamo da un calcio fatto davanti a nessuno. Non è stato difficile riadeguarsi al senso della realtà. Ma le cose stanno cambiando velocemente. Questo porta con sé anche dei rischi. «Adesso che ci sono le risorse economiche e le società sportive investono nel calcio femminile, arrivano gli allenatori uomini. Ci sono tante donne brave che però non vengono prese in considerazioni perché chi decide sono dirigenti uomini. Si ha il pregiudizio che le donne sappiano meno dal punto di vista tattico e siano più mamme. In realtà è importante avere allenatrici e dirigenti donne perché il calcio femminile può contaminare il calcio maschile con le sue caratteristiche: spirito di sacrificio, correttezza, fair play. Il calcio maschile è dominato da altre logiche».
Per una vera contaminazione sarebbe importante avere allenatrici nelle squadre maschili di Serie A e Serie B e Bertolini è una delle tre italiane ad averne l'abilitazione, ma su questo taglia corto: «Non ci sono dirigenti che hanno il coraggio di prendere figure femminile in uno staff maschile. Il calcio maschile è ancora maschilista e chiuso».
Lo sport, nella vita della ct, si è intrecciato spesso con la politica e le istituzioni. «La mia conoscenza dello sport l’ho portato nelle mie scelte politiche. Allo stesso tempo l’esperienza politica l’ho portata anche nella mia attività di allenatrice nello stare dentro le relazioni» spiega Bertolini, che è stata assessora allo sport e servizi sociali del comune di Correggio (1994-1998), e quello di consigliere provinciale nell'amministrazione provinciale di Reggio Emilia (1998-2002).
«La politica è fare il bene delle persone. Quando si fa sport, stare dentro i campi da calcio, conoscere dirigenti, allenatori, famiglie atleti ti fa capire quali sono le azioni da intraprendere perché lo sport sia realmente un fattore di crescita e di educazione. Per fare una politica nello sport, bisogna avere la capacità di trasferire ciò che si è imparato. La differenza la fa la persona, l’esperienza, le competenze e i valori».
Milena Bertolini ha rinnovato il contratto fino al 2023 con la Nazionale, guiderà quindi le azzurre agli Europei del prossimo anno e poi ai Mondiali in Australia e in Nuova Zelanda. Questa volta quale sarà l'obiettivo? «Vorrei che la nazionale arrivi fra le squadre top a livello mondiale, ma potrà succedere solo se in Italia la federazione e il movimento punteranno sul professionismo (in arrivo dal 2022, ndr), investiranno risorse, avranno idee di sviluppo e se si arriverà a 100mila tesserate dalle 30mila di oggi» sottolinea la ct, proseguendo: «Bisognerebbe agevolare le bambine che giocano con i maschi, formare squadre miste sarebbe utile sia dal punto di vista culturale sia tecnico, come avviene già in altri sport. In Olanda, ad esempio, la federazione ha ufficializzato la possibilità per le donne adulte di giocare con i maschi a livello amatoriale. Non per niente l'Olanda è campione d’Europa e vice campione del mondo. Ci vogliono idee coraggiose e bisogna lavorare sui territori. Ogni bambina deve avere la possibilità di giocare nella squadra del quartiere. Se c’è una volontà c’è una via, basta trovare le modalità a livello regolamentare».
Non solo. «Bisogna investire nella formazione delle figure professionali all’interno delle società sportive, la differenza lo fanno le persone per fare sport con inclusione. Ed è importante che bambine e bambini continuino a fare sport anche da adulti, non solo a livello competittivo. Oggi si taglia fuori, si seleziona, creando dei danni enormi a livello psicologico. Lo sport è uno strumento di sviluppo della personalità, è necessario che gli attori siano preparati. Lo sport è fondamentale nella crescita personale, ti torna indietro in termini di uomini e donne che fanno parte della società civile».
Milena Bertolini sarà impegnata nei prosismi anni con la Nazionale, ma ha già idee, competenze, formazione ed esperienza per contribuire allo sviluppo ello sport in Italia, perché, come dice lei, bisogna avere «una visione che va oltre il risultato, deve andare verso il bene comune».
Monica D’Ascenzo
redattrice
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