di Emilia Patta
Regionali, Lollobrigida: "Questo risultato farà bene a Meloni"
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Che il centrodestra avrebbe vinto le regionali in Lombardia e Lazio era abbastanza scontato. Meno scontato era che le opposizioni dell’ex campo largo, con i loro candidati e nel loro complesso, avrebbero perso così tanto.
Già, perché stando ai primi dati la forchetta è in entrambi i casi amplissima: secondo gli exit pool di Opinio-Rai il governatore leghista uscente Attilio Fontana vince con il 54% dei voti e ben 21 punti di distacco dal candidato del Pd appoggiato anche dal M5s Piefrancesco Majorino, fermatosi attorno al 33%, mentre la candidatura dell’ex forzista Letizia Moratti appoggiata dal Terzo polo non sfonda, fermandosi poco sotto il 10%, e sembra togliere terreno più al Pd che al centrodestra. Eclatante anche il distacco tra il vincitore del centrodestra Francesco Rocca nel Lazio - città amministrata fon qui dal centrosinistra allargato (dal Pd al M5s ai renziani di Italia Viva) con il governatore Nicola Zingaretti - e il suo principale competitor Alessio D’Amato, sostenuto in questo caso anche dal Terzo polo di Calenda e Renzi: anche in questo caso venti punti, con la candidatura solitaria del M5s Donatella Bianchi ferma all’8,6% laddove alle politiche il M5s aveva raccolto il 15% nel voto di lista. Un arretramento vistoso dell’ex campo largo, se si tiene conto che in Lazio le tre forze dell’opposizione sommate avevano oltre il 50% il 25 settembre.
La prima evidenza è che il forte astensionismo - stavolta la partecipazione ha superato di poco il 40% in Lombardia e si è fermata al 37% nel Lazio - ha penalizzato soprattutto il centrosinistra. Ed è un dato abbastanza naturale. Perché se è vero che il fenomeno della disaffezione al voto è ormai cronicizzato ed è comune agli elettori di tutti i partiti, soprattutto nelle elezioni comunali e regionali dove non c’è nessun partito che ha in valori assoluti più voti rispetto alle politiche, è anche vero che la dissafezione si concentra in misura maggiore in quei partiti che non sono ritenuti vincenti: una parte di elettorato, in buona sostanza, non fiuta aria di vittoria e non si reca alle urne ritenendo che sia inutile.
Ma c’è dell’altro: un primo sguardo alle scelte di lista ci dice che il centrodestra nel suo complesso non solo tiene rispetto al risultato delle politiche del 25 settembre, ma cresce anche un po’: la luna di miele con gli elettori non sembra finita. In Lombardia Fratelli d’Italia resta primo partito mentre gli alleati di Giorgia Meloni, lungi dall’essere fagocitati dal partito maggiore, mantengono le postazioni con Forza Italia al 7% e le accrescono con la Lega attorno al 16,5% dal 13,5% delle politiche. Risultato al quale va aggiungo il buon 6% circa raccolto dalla lista del governatore Fontana.
In Lazio la crescita del centrodestra è anche più evidente: Fratelli d’Italia sale dal 31 al 33%, Lega e Forza Italia raggiungono l’8-9% da poco più del 6%. Qui a perdere maggiormente nel fronte opposto è il M5s: dal 15% raccolto alle europee si attesta all’8,6%. Insomma la scelta della candidatura solitaria non paga e l’annunciato sorpasso sul Pd non c’è alla prova dei voti reali: i dem infatti tengono, anzi aumentano leggermente rispetto alle politiche assestandosi attorno al 20% (dal 19%). Flette parecchio dimezzando i voti, invece, il Terzo polo, che in Lombardia - dove Calenda e Renzi hanno tentato l’avventura solitaria con Moratti per sconfinare nei territori del centrodestra - dimostra di non avere capacità attrattiva per l’elettorato moderato del centrodestra, per quanto deluso possa essere. Segno che il partito calendian-renziano in formazione dovrà giocoforza guardare al Pd, acconciandosi a fare la gamba di centro della futura coalizione di centrosinistra. Rinunciando alle velleità di egemonia culturale e politica sull’elettorato “riformista” del Pd così come alle velleità terzopoliste, visto che il sistema elettorale resta e resterà maggioritario anche a livello nazionale.
Insomma, se nel centrodestra il sostanziale mantenimento degli equilibri interni rafforza Meloni e la mette al contempo al riparo da possibili eccessive fibrillazioni da parte degli alleati, sul fronte delle opposizioni va notato che il sorpasso sperato da Giuseppe Conte per ridisegnare il futuro centrosinistra a sua immagine non c’è stato. L’ex premier probabilmente andrà avanti con la sua politica di autonomia dal Pd fino alle europee del 2024, ma prima o poi dovrà fare i conti con i dem e con il loro peso. Insomma, il segretario del Pd in pectore Stefano Bonaccini - che ha già vinto il congresso degli iscritti e si appresta a vincere le primarie del 26 febbraio - è confortato nella sua linea di “vocazione maggioritaria” che intende il Pd come perno della futura coalizione che dovrà sfidare il centrodestra a fine legislatura. I dati di oggi mostrano che non solo non c’è alternativa alla destra senza il Pd, ma non c’è senza la sua guida. La traversata nel deserto è appena all’inizio, ma Bonaccini può avere qualche base di appoggio e tirare un piccolo respiro di sollievo.
Emilia Patta
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