di Angelo Flaccavento
Silhouette precise create dal giovane direttore creativo Maximilian Davis per Ferragamo
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Precisione: una vena ingegneristica attraversa questa stagione di sfilate milanesi, concretizzandosi in visioni che vanno dal sensuale all’algido. Nonostante la giovane età e la limitata esperienza, al direttore creativo di Ferragamo, Maximilian Davis, vanno riconosciute esattezza e calibro: la concentrazione su pochi argomenti – abiti corti, militarismi al femminile, cappotti esatti, un po’ di flou, tailoring per gli uomini – è evidente, e di grande giovamento. Il viaggio stilistico origina negli anni 500 del marchio, per sempre associati alle star del momento d’oro di Hollywood: di quel glamour voluttuoso e luccicante, dopo il passaggio di un bisturi inesorabile, rimane un’ombra netta e grafica e un paio di abitini drappeggiati.
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Ben venga il lavoro in purezza e in sottrazione, a patto che l’energia sia vitale e non, come in questo caso, trattenuta. Gli accessori migliorano. Rimane incerto, invece, il lavoro sul colore, perché il rainbow del dna suggerisce una libertà di associazioni che la monocromia castiga. Ciò detto, è una prova tesa, elegante, che traccia un segno sicuro nella definizione di ciò che Ferragamo può essere oggi. Rassicura la scelta di puntare sul modernismo senza tempo invece di logomanie e messaggi garruli.
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A lungo sinonimo di minimalismo come efficienza e marcatore di alto status sociale e professionale, Jil Sander ha ormai preso, comprensibilmente, altre strade, infilandosi nello spazio che sta tra Loewe e il vecchio Celine. La formula funziona, però a questo giro i coniugi Meier accelerano sulle forzature concettuali e stilistiche, e il risultato è incerto. Manca la chiarezza, sicché il valore dei singoli pezzi si perde.
Giunto alla quarta puntata, il progetto Ferrari Style continua ad oscillare tra il desiderio di fare la moda seria, di ricerca e i limiti automobilistici del nome, con quel che ne consegue. Però estetica e punto di vista si affinano in una proposta coerente, foriera di più chiari sviluppi.
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Da Bally, Rhuigi Villaseñor ha le idee chiarissime. Lavora di linee pulite, colori pastosi e materie preziose mentre continua ad alzare la temperatura a colpi di scosciature e scollature, guardando insieme ad Halston e a Tom Ford senza risultare citazionista. C’è poca chiarezza da MSGM, ma la scelta è deliberata, o forse semplicemente furba. Massimo Giorgetti, infatti, dichiara di voler riportare sulla passerella, così come è, la confusione distorta e la vertigine del contemporaneo, e questo si traduce in un pastiche nel quale il suo usuale metodo sampling - si campiona di tutto, dal Celine di Phoebe Philo al vecchio Marc Jacobs al nuovo Alaïa - è messa sotto un implacabile riflettore che ne evidenzia la debolezza stilistica.
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Ermanno Scervino prosegue il peana appassionato alla bellezza femminile che attraversa da sempre la sua opera. Questa volta l’esaltazione delle forme muliebri è particolarmente voluttuosa negli abiti con sapienti imbottiture che seguono ed evidenziano ogni curva. Dopo l’inizio claudicante della scorsa stagione, da Missoni Filippo Grazioli accantona le remore e si mette in gioco come autore. È un primo passo, da tarare ulteriormente, ma si avverte una certa sicurezza. La collezione è materica e seducente: se i mismatch di stampe ricordano il passato, le velature sono fresche, e definiscono uno stile bodyconscious che convince.
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Da Benetton, prosegue il reboot ad opera del direttore creativo Andrea Incontri. Intercettando la spiccata intergenerazionalità di Benetton per metterla in un acceleratore pop, Incontri inventa un iperprodotto trasversale e coloratissimo. Anche questa è precisione, con qualche guccismo di troppo.
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