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Dire «perchè?» non è sempre la domanda migliore per la motivazione

di Massimo Calì *

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(AFP)

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Il rischio è di confondere le acque nella distinzione tra i motivi per cui abbiamo fatto qualcosa e gli scopi per cui facciamo qualcosa

22 marzo 2022
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3' di lettura

Nelle aziende (e per chi come me lavora con le aziende) la motivazione è argomento principe di ogni ragionamento sul People Management. Di recente tra pandemia, smart working, rischi di burnout e great resignation, il tema ha preso ancora maggiore urgenza e rilevanza. Citando Treccani (a cui ho attinto per tutto l’articolo) la motivazione si può intendere come “l'insieme dei bisogni, desideri o intenzioni che prendono parte alla determinazione del comportamento”. Partendo da questa definizione è ragionevole ritenere che, per interrogarci sulla motivazione nostra o altrui, spesso utilizziamo l’avverbio “perché”. Esso esprime “per lo più rapporti causali o finali”; serve cioè a chiarirci “la causa, il motivo per cui si verifica o non si verifica un dato fatto, o lo scopo per cui si fa o non si fa qualche cosa”.

Anche solo per l’abitudine inveterata che abbiamo ad usarlo, viene spontaneo pensare che nelle relazioni “di aiuto” (comprese quelle in cui i capi provano a motivare i collaboratori) possa rappresentare l’incipit ideale di qualunque domanda che, con scopo maieutico, ci venga da porre.In quel “motivo o scopo per cui” si cela però il limite principale dello “strumento” perché: ci fa correre il rischio di confondere le acque nella distinzione appunto tra i motivi per cui abbiamo fatto qualcosa (uso causale) e gli scopi per cui facciamo qualcosa (uso finale).

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Questa possibile confusione ci ostacola invece che supportarci: dire “perché hai fatto così?” ad un collaboratore, lo mette in discussione persino quando rivolto al futuro. Soprattutto se la domanda arriverà al mancare dei risultati, dato che analizziamo i motivi delle sconfitte con molta maggiore frequenza di quanto non approfondiamo la ragione delle vittorie.

Le risposte che riceveremo a questi perché saranno di conseguenza molto probabilmente nella zona della giustificazione: “perché credevo, pensavo, intendevo”. Più interessante allora utilizzare cosa e come, che è anche più facile rivolgere al futuro. “Cosa” pone l’attenzione sulle azioni: “Cosa farai?” ci impone concretezza, a differenza di “perché”, che rischia di generare risposte tautologiche. Se vuoi far conoscere due amici che credi siano compatibili tra loro, alla domanda “perché” la risposta più probabile sarà “perché credo siano compatibili”. Alla domanda “cosa intendi fare per farli conoscere” ecco che pensiamo già di più all’efficacia dell’azione rispetto al fine: ha un senso? Che probabilità ha quell'azione di sortire l'impatto sperato? Meglio portarli al cinema o invitarli ad una cena?

Il come ci costringe a raffinare ulteriormente l’utilità dell’azione, riflettendo sul modo con cui compierla: fatta come ho in mente, sarà fatta “bene” o “male”? Diventa un formidabile grimaldello per capire se è adeguata o se non è addirittura il caso di cambiarla: li faccio conoscere se saranno seduti vicini (il “cosa”, e fin qui cinema e cena pari sono) ma soprattutto se potranno parlarsi un po’ (quindi meglio la cena, purché non ci sia troppo rumore eccetera, il come).

Nei nostri mestieri abbiamo spesso dei cosa (i task, i compiti) che sono anche i più facilmente misurabili perché considerati componenti fondanti di quella attività (nell’esempio extra lavorativo: quante cene o cinema hai organizzato con i tuoi amici?) Ma su quelli difficilmente si riesce a creare motivazione che vada oltre al doveroso senso di appartenenza, all’etica del lavoro o all’obbligo contrattuale: monto lo pneumatico perché è il lavoro del gommista; incasso il conto perché è il compito di una persona alla cassa; servo il caffè perché è nella job description del barista e così via.

Peccato che la differenza la si possa fare sempre più con altre azioni, che in quanto subordinate e parallele si configurano nella qualità di come, non necessariamente pattuibili contrattualmente e normalmente attribuibili ai gusti (quindi facoltative) o allo stile della casa (raccomandate, ma non mandatorie): monto lo pneumatico, chiedendo intanto se le pastiglie dei freni sono state controllate di recente; incasso il conto, sorridendo; servo il caffè, chiedendo prima se normale o macchiato.

E sono queste le azioni che le persone fanno solo se motivate; diversamente è difficile costringerle a farle (se non sono nella job description). E che fanno a maggior ragione quando il come ha portato a riconsiderare il perché, fino a metterlo in discussione e a farlo proprio, andando così ad incidere direttamente sulla motivazione: sorrido non perché sia necessario per incassare il conto, ma perché il mio lavoro è soddisfare il cliente (soprattutto mentre paga) eccetera. Se chiediamo perché, l’oggetto della nostra osservazione è il nostro interlocutore; quando chiediamo cosa e come, guardiamo invece insieme le azioni che motivano agli obiettivi, e non lui stesso.

* Partner Newton Spa


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